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    18/09/2024

Il governo Monti e il Sud: più fatti, meno sogni

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Politica_monti.jpgAVELLINO – Riproponiamo, in relazione alla recente visita del presidente Monti in Campania e a Pompei e alle vicende che stanno interessando le Lega Nord e il suo leader Bossi, l’editoriale di Antonio Di Nunno, apparso sul numero di gennaio del nostro giornale, ancora attuale per immediatezza e incisività.

Il governo è orientato a prestare ascolto ai richiami lanciati a più riprese da politici, amministratori, intellettuali meridionali (ed autorevoli economisti – non proprio di queste parti – studiosi delle cose del Sud nonché preoccupati indagatori delle sorti di tutto il Paese). L’ascolto del governo Monti non è niente di più e niente di meno che…ascolto. Lo stesso che Monti ha riservato alle organizzazioni sindacali e a quelle degli imprenditori per la più ampia discussione sul rilancio dell’economia del Paese.

Di trattative, contrattazioni, patti solenni, neanche a parlarne: è tardi, bisogna agire, non c’è tempo e spazio per negoziati dice il governo. Ed è vero. Solo che il Sud è un argomento assente dall’agenda di governo, Parlamento e mondo imprenditoriale da oltre vent’anni, ovvero da quando la Lega di Bossi ha posto il problema della secessione, della Padania, delle due Italie ed altre sciocchezze.

Il guaio è che da questo sciocchezzaio ne è derivato un impoverimento innanzi tutto culturale del delicato tema della «questione meridionale», derubricata da questione nazionale a bega locale. Soltanto dal 1969 il Parlamento aveva votato un indirizzo che obbligava governo ed aziende di Stato (allora tante) ad utilizzare nel Sud il quaranta per cento dei loro investimenti; in quel dibattito ci fu chi ricordò che in realtà l’ultima e vera occasione di emancipazione e di progresso il Sud l’aveva perduta a Napoli centosessanta anni prima con la fallita rivolta antiborbonica e giacobina del 1799.

Questi furono gli ultimi fuochi di un dignitoso sentimento verso i tanti problemi del Mezzogiorno. Poi l’oblio, le ingiurie, i politici meridionali anch’essi finiti nel turbinio della tangentopoli che ebbe come epicentro soprattutto Milano. E poi il loro silenzio, la loro paura dell’equazione meridionale=parassita (e ladro).

La contemporanea decadenza dell’economia italiana, il ridimensionamento della grande industria, la fine del mito del triangolo industriale, la scomparsa dei grandi marchi (chi ricorda più l’Ignis di Giuanin Borghi, industriale varesino del “bianco” che venne a costruire frigoriferi anche alle porte di Napoli dove finanziò persino la fortissima squadra locale di basket?); tutto poi ha contribuito a creare la «questione settentrionale», ovvero il dramma del profondo Nord dove andava in crisi anche il futuro dei tanti meridionali che avevano trovato lavoro – e relativa sistemazione familiare: la casa, figli a scuola, magari un lavoro anche per un altro familiare a carico – nelle regioni settentrionali.

Non a caso proprio il popolo meridionale del Nord è quello più arrabbiato contro il Sud ed ogni discorso filomeridionale; è la gente che ha visto una soluzione nei poco logici discorsi da comizio non proprio di prim’ordine dei vari Bossi, Calderoli e Maroni. Se aggiungiamo a questa benzina quello strano carburante che è l’incomprensione dei meridionali emigranti per le profonde trasformazioni avvenute intanto nelle città e nei paesi del Sud (ma come, noi siamo scappati dalla miseria e loro si pagano squadre di calcio, hanno negozi pieni di roba, tante auto da rendere il traffico impossibile!) ne viene fuori quella miscela esplosiva che sta rendendo credibile, almeno a parole, la secessione, o l’Italia duale, la doppia economia.

Passasse una soluzione surrettizia, la fine sarebbe vicinissima. Se ha meravigliato l’assenza di espliciti riferimenti al problema meridionale nelle dichiarazioni programmatiche del governo, ha sorpreso che in tutto questo gran parlare di rilancio dell’economia italiana nell’ultimo mese proprio non abbia trovato il modo ed il tempo di approcciare una linea sull’argomento. Questo compito sembra essere stato lasciato al capo dello Stato, Napolitano, che deve – di conseguenza – prendersi anche gli insulti di Bossi e soci.

Ma, attenzione, anche il rinvio di una politica per il Sud soltanto dopo una futuribile uscita dell’Italia dalla crisi dell’euro e da quella imposta dalla sua anemia, anche questo rinvio non rappresenterebbe altro che una scelta di visione duale dei problemi italiani.

E questa, come si suole dire, se non è zuppa è pan bagnato. A meno che la convocazione di presidenti di Regioni, Province e sindaci meridionali non provochi qualcosa di finalmente concreto. Qualcosa  che vada ben oltre le ipotesi dei ministri Barca e Profumo sul rilancio da affidare alla scuola (obbligo scolastico fino a diciassette anni ed istituti aperti fino a sera in funzione anticamafie) o alla banda larga e quindi ad un sistema informatico diffuso e generalizzato. Sono idee buone da non respingere, ma assolutamente incongruenti rispetto alla fame di lavoro, di investimenti e di infrastrutture materiali (ferrovie, autostrade, dighe, acquedotti, porti, gasdotti) che mancano alle regioni meridionali sia per un normale sviluppo del loro territorio sia per le loro relazioni con il resto del Paese.

 

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