Chissà quanti elettori sono consapevoli che c’è una parte quasi nascosta della posta in palio nelle prossime elezioni politiche. La parte nascosta è tutto quello che sta dietro al famoso quanto micidiale settantacinque per cento di tasse raccolte in Lombardia che “deve” rimanere in quella regione. Una decisione che è un punto fondamentale del programma elettorale della colazione guidata da Silvio Berlusconi; ed è una decisione che naturalmente dovrà riguardare tutte le regioni e che avrà bisogno di un provvedimento di carattere costituzionale. Quanto sia costituzionalmente sostenibile un “passaggio” del genere si vedrà. Per ora Berlusconi dice di aver ottenuto il “sì” dei suoi presidenti di Regione: Caldoro (Campania), Scoppelliti (Calabria) e Fitto (ex governatore Puglia).
Bisognerà vedere se anche gli italiani, in particolare i meridionali che soprattutto in Sicilia, Campania e Calabria di solito votano Berlusconi (e di conseguenza la Lega secessionista), sono d’accordo. Perché questa è una profonda modifica dell’assetto dello Stato. Già, profonda, e non soltanto dal punto di vista “contabile”. Lasciare allo Stato un quarto del ricavato delle tasse per tenere in piedi difesa, ordine pubblico, giustizia ed un minimo di sostentamento a territori svantaggiati è qualcosa di quanto meno fantasioso ed è mirante a disarticolare quel poco che rimane del ruolo e della funzione dello Stato. Stato, sia ben chiaro, che ormai è inteso dai cittadini come un aggrovigliato e costoso apparato burocratico. Apparato naturalmente da sfoltire, semplificare, alleggerire. Questo dell’apparato statale è, oltre tutto, l’unico settore dove è possibile fare economie sia pure in un arco ragionevole di tempo (l’idea di chiudere o sfasciare enti dello Stato o eliminare livelli locali dalla mattina alla sera è una pura illusione coltivata da chi nemmeno sa di cosa parla).
Oltre l’evidente squilibrio che si creerebbe nella vita del Paese, c’è qualcosa di più grave dietro la questione 75 %. C’è, infatti, il progetto di costruzione della grande regione Padania che, controllata tutta dal centrodestra, costituirebbe un micidiale contraltare al governo di Roma, in sostanza, con l’unificazione di Lombardia, Piemonte, Veneto e – in seguito, una volta aggiuntesi con effetto calamita – Valle d’Aosta e provincia autonoma di Bolzano, la divisione dell’Italia in due tronconi sarebbe cosa fatta. Ed il paradosso è che su questa prospettiva lasciata appena intravedere si ritrova, per esigenze elettorali, non soltanto il centrodestra che in Lombardia e zone vicine ha drammaticamente bisogno del voto della Lega; meno evidente ma latente è il rimprovero che tra i democratici del Nord viene alimentato contro il Meridione ed i meridionali responsabili, in pratica, di aver dissipato – mettendo in crisi il Nord – quel miracolo economico che il “triangolo industriale” aveva costruito. Basandosi naturalmente, ma su questo si sorvola, sulla forza-lavoro meridionale che abbandonò negli anni Cinquanta le campagne (erano tutti contadini) ed i paesi del Sud per andare a lavorare nelle fabbriche settentrionali….ricostruite – con i fondi americani e del governo di Roma – dopo le distruzioni della guerra.
Quando Sergio Ricossa, illustre docente torinese, scriveva allora nel suo diario, quasi lamentandosi, che Torino, per effetto dell’arrivo di tanti immigrati sarebbe diventata la terza città italiana e scriva dei nuovi quartieri che si stavano costruendo in periferia, non spendeva una parola sui “non si fitta ai meridionali” o sulla loro sistemazione in costosi, per gli affittuari, quanto puzzolenti scantinati o sottotetti e sulla trasformazione di contadini “indolenti” in disciplinati operai della Fiat di Valletta e del sindacato giallo.
Ed ancora, le conseguenze sulla società meridionale della desertificazione di piazze, campagne e scuole del Sud? Nessuna annotazione. Forse che quel boom economico ha avuto un contrappeso su quella che è il Sud mafioso e camorrista di oggi? Né Ricossa né altri autorevoli intellettuali e politici di oggi hanno mai parlato del prezzo che il Sud ha allora pagato; costoro sono pesantemente polemici verso i terroni ed i loro rappresentanti politici; “straccioni” questi ultimi, ha sintetizzato il supertecnico Tremonti. Tremonti, ovvero l’incredibile partecipante, tempo fa, ad un comizio a Bologna per conto della destra: poiché il candidato del centrosinistra si chiamava Merola, disse: “Pensavo che stavamo eleggendo il sindaco di Napoli…”. Politici come lui non hanno mai calcolato quanto è costato il decennio 1950-1960 a tutto il Sud.
Non lo hanno mai fatto se ancora oggi ritengono di essere stati depredati dai meridionali (“Il sacco del Nord” è il titolo del libro che Luca Ricolfi ha dedicato a questo particolare rendiconto a senso unico). Massimo Cacciari si è invece di recente lamentato perché né lui né l’ex sindaco di Torino, Chiamparino, hanno trovato ascolto nel Partito democratico quando hanno posto il problema della “questione settentrionale” e dell’esigenza di creare una sorta di Pd del Nord da federare con quello di Roma (e, se nascesse, quello del Sud). La loro sembra la risposta anticipata a chi dalle nostre parti ha scritto un libro dal titolo significativo, Separiamoci. Un altro esempio per capire quanta violenza antimeridionale c’è dentro l’animo di tanti settentrionali?
Sempre dal diario del professor Ricossa: “È dal 1905 che gettiamo una montagna di soldi sull’Italsider di Bagnoli” (voluta da Francesco Saverio Nitti per industrializzare il Sud nel corso del ventesimo secolo ndr). Quando Ricossa scriveva queste cose non c’era la crisi dell’acciaio e l’Italsider di Napoli (una volta Ilva) dava lavoro a ventimila napoletani che costituirono l’asse portante della classe operaia napoletana.
Puntualizzare questi fatti comporta l’iscrizione automatica nel partito dei lamentosi o, peggio, nello schieramento dei cosiddetti “neoborbonici”. Appare davvero difficile sfuggire a questa logica e, quindi, è quasi impossibile esaminare con un minimo di serenità quanto accaduto in Italia negli ultimi centocinquanta anni.