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    18/01/2025

Il compagno contadino, Sullo, De Mita e il Pci

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Sullo e De Mita. In basso, un titolo tratto da un articolo su Quaderni IrpiniC’è un ricordo, un’immagine che da tempo, da anni, mi impone una riflessione. Mi vedo tra una ventina di ragazzi – “esploratori” di Baden Powel – che stipati in un furgoncino Volkswagen tornano dal campo scout del Laceno ad Avellino. All’invito a cantare lanciato da qualcuno cominciamo ad intonare a squarciagola un qualcosa che ci accomuna, un canto che tutti conosciamo; quel canto è l’inno dei comunisti italiani Bandiera rossa. Ma quel che mi colpisce di più è vedere, dalla campagna che attraversiamo – siamo tra Bagnoli e Montella (allora l’Ofantina non era stata ancora costruita) – un contadino che, lasciato un pesante attrezzo, si sbraccia – forse era un braccio alzato con un pugno chiuso – per salutarci e mandare un segnale verso quel pullmino rosso che risaliva verso Castelvetere e dal quale proveniva quel canto, quel tanto simbolico Bandiera rossa. Quel ricordo e quell’immagine mi sono tornati in mente leggendo gli articoli pubblicati dal Mattino e scritti da esponenti dell’ex Pci irpino che si interrogano sul particolare rapporto che in Irpinia si creò negli anni Settanta tra comunisti e democratici cristiani. Fu un rapporto giusto o sbagliato e perché, comunque, non produsse fatti dirompenti in provincia oltre la giunta Aurigemma al Comune di Avellino (1970-1975)? Fingo di ridurre quell’esperienza in città ad un fatto “minimo” perché fingo di accettare l’idea che in Irpinia, e nella stessa Avellino, non ci sia stato altro.

Questo errore di impostazione porta anche gli ex comunisti che sono intervenuti nel dibattito a dire nella loro ricostruzione di quei tempi che in campo nazionale tutto cominciò dalla promozione a segretario del Pci di Enrico Berlinguer, ed in Irpinia dalla conquista del potere in via Tagliamento da parte del gruppo guidato da Ciriaco De Mita. La visione dei militanti comunisti relativa a quel periodo non va più indietro nel tempo per cui la figura di Fiorentino Sullo risponde all’identikit di chi costruì soltanto l’odiata (da loro) Democrazia cristiana nel dopoguerra – quella del potere assoluto. Sarebbe stato il mallevadore dello scudo crociato clientelare – mentre in realtà fu quello che contese nell’immediato dopoguerra al risorto mondo liberal-prefettizio il controllo dell’elettorato moderato e centrista. Quel mondo non era morto con il fascismo né il Meridione aveva “goduto” del bagno purificatore della Resistenza.

Ai Dorso, ai Sullo, ai Preziosi ed ai tanti altri scesi in campo da noi per rifare l’Italia si parò di fronte il muro degli ex notabili. Muro difficilmente scalfibile dalla nobile minoranza azionista guidata da Dorso, dai Maccanico, da De Capraris, dai Tino. Il popolo, il popolo scalcinato così ben descritto da Federico Biondi nel ponderoso resoconto della sua lunga milizia nel Pci – si leggano in particolare le pagine dedicate al suo imprevisto soggiorno in una Calitri poverissima e senza futuro – quel popolo era (come in tutto il Sud) quasi tutto a favore dei monarchici e comunque dei moderati.

Fu in questo contesto che Sullo – che sul Corriere dell’Irpinia spiegava le ragioni dei cattolici firmandosi ingenuus – portò la Dc irpina, dopo un urticante discorso nel cinema Eliseo, a disobbedire al referendum monarchia-Repubblica alla furba posizione della Dc nazionale che imponeva l’agnosticismo. Fu così che l’Irpinia, con in particolare il voto di Avellino, risultò tra le province meridionali più repubblicane. Lo stesso Sullo, prendendosi tanta inimicizia dal clero locale, cominciò poi a coltivare una politica ed un gruppo dirigente (giovanissimo e di assoluta qualità)  che avrebbe poi formato l’ossatura della Dc progressista campana, che non fu mai – parliamo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – contaminata dai vizi laurini e poi gavianei dell’allora circoscrizione elettorale Napoli-Caserta.

Quella Dc pensò – con Sullo ministro dei Lavori pubblici – una riforma urbanistica che avrebbe salvato il nostro Paese dal disastro edilizio e paesaggistico. Ma quella riforma non passò mai perché la Democrazia cristiana – in caduta libera dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’annuncio del governo con i socialisti di Nenni (la chiamavano l’«apertura a sinistra») – gli ritirò l’appoggio ed il Pci, pure da lui sollecitato in Parlamento, non mosse un dito. Anzi. I comunisti facevano capire: “Ma come può un democratico cristiano pretendere di fare lui una riforma audace e progressista? La faremo noi quando torneremo al governo”. Da qui cominciò il declino del democristiano scomodo, quello che nominato ministro dei Trasporti nel 1960 nel governo Tambroni – che aveva i voti determinanti del Movimento sociale italiano – capì di essere in conflitto con il suo pensiero ed il suo passato e lasciò il governo. Ma fu dopo la fine del suo sogno urbanistico, condiviso da intellettuali di grande livello, che nel giro di pochi anni – complice un carattere non proprio facile – dovette lasciare la guida della Dc irpina a De Mita ed al suo granitico gruppo. E qui comincia un’altra storia, con un De Mita che sfida il suo partito proponendo quel “patto costituzionale” che poi altro non era che un vasto accordo che includeva il partito comunista. Ma come si faceva a dirlo apertamente se lo stesso Pci aveva problemi al suo interno? La cosa si poteva fare se almeno la Dc avesse recepito dall’azione dei terroristi uno scossone su quella questione morale che intanto stava affogando il Paese.

E poi proprio in quel periodo cominciarono le retate antimafia ed anticamorra. Chi dimentica un “famoso” 17 giugno 1983, a pochi giorni dalle elezioni politiche, l’arresto, tra gli altri, di Enzo Tortora e del presidente dell’Avellino calcio Antonio Sibilia? Da allora l’Irpinia fu ritenuta bacino naturale della camorra ed avevi voglia di far capire la distinzione tra l’alveo gavianeo della Campania felix e radici e storia di zone interne della regione. Prima la Dc aveva cercato di salvarsi con Benigno Zaccagnini.

Zaccagnini – che risultò convincente verso buona parte dell’elettorato moderato – fu lasciato a fare la “Madonna pellegrina” e poi sostituito. Intanto, De Mita ed i suoi autorevoli amici cominciarono a perdere tutti gli appuntamenti con la storia, a partire dal lungo e micidiale dopo terremoto degli anni Ottanta (ultimo sussulto di “sinistra” di quel gruppo le dimissioni dei suoi cinque ministri per protestare contro una legge che dava il via allo sconfinamento delle tv private) fino agli adattamenti per tutte le soluzioni che si prospettavano alla Regione Campania con la Dc intanto divenuta Ppi, poi Margherita ed infine confluita nel Pd. Pd che lui accettò finché ne fu il capo. Quando Veltroni – con mossa sbagliata nei modi e nei tempi – gli negò il posto di capolista alle elezioni, De Mita se ne andò sbattendo rumorosamente la porta e se ne andò con quel Casini che lo aveva contestato un giorno sì e l’altro pure. Casini che poi lo ha trascinato verso sponde berlusconiane. Quindi, si relegò al ruolo di riferimento dell’Alta Irpinia. La recente decisione di candidarsi a sindaco di Nusco gli fa onore per più di un motivo, uno su tutti: l’essersi ripiegato sulla sua Nusco e sulla sua terra che tanto furono usate per appannarne l’immagine.

Ancora pochi giorni fa Repubblica per descrivere la tripartizione dell’informazione in Rai ai tempi belli (?) del pentapartito scriveva di Tele-Nusco, Tele-Craxi e Tele-Kabul. Nusco ancora e per l’ennesima volta usata, come l’Irpinia, per dare gli esatti contorni dei limiti del politico meridionale. Come se tutti gli altri protagonisti fossero nati a New York, a Stoccolma o chissà dove. Naturalmente De Mita le elezioni a Nusco le ha vinte e da sindaco parla del futuro dell’Alta Irpnia. È vero che mira ad usare la nuova legge sulle Province per avere un ruolo più alto (presidente dell’assemblea dei sindaci)? Se sì sbaglia perché in questa fase è la parte gravitante su Avellino ad avere problemi visto che è esclusa da tutti i programmi di sviluppo e che per questa zona, tranne il sindaco del morente capoluogo, Foti, non c’è un garante politico. Il Pd è il primo partito in Irpinia. Forse è obbligato a candidare per il vertice dell’assemblea il sindaco Foti. E quest’ultimo non ha scelta. Deve candidarsi e basta.

Ma questo lunghissimo excursus democristiano per una riflessione in corso da parte di autorevoli esponenti del disciolto Pci-Pds che senso ha? Ce l’ha perché quell’immagine del compagno contadino che con le braccia alzate salutava i ragazzi (nessuno, che ricordi, allora comunista) che cantavano Bandiera rossa mi ha sempre indotto a pormi una domanda: perché una provincia povera, piena di contadini che avevano come grande prospettiva l’emigrazione, non ha mai dato davvero un grande suffragio al partito comunista ed anzi ha espresso proprio in Alta Irpinia il meglio del gruppo dirigente Dc? È su questo che in tanti dovrebbero riflettere. Anche perché la storia della Dc irpina non è soltanto Sullo e De Mita ma anche quella di tanti dirigenti di partito, sindaci, consiglieri comunali. Ma a questo mondo sembra non ci sia chi voglia guardare.

Eppure fu un mondo pieno di fatti e situazioni. I documenti dialoganti della sezione Gramsci, Le copie del periodico La Discussione recapitate in via Del Balzo perché sulle sue pagine c’era la risposta dialogante alle pagine di Rinascita. E poi l’intergruppo, cioè Tonino Argenziano, Gino Anzalone, Enzo Venezia, il sottoscritto, Giuliano Minichiello, tanti giovani del Pci. Le passeggiate per il Corso, rimproveratemi dai big, con l’avvocato Borriello. E, certo, anche i contrasti: il manifesto con il carro armato delle Politiche del ’72, l’incredibile e stupida guerra – cui fummo costretti con Bianco che s’impegnava tanto e De Mita che taceva – vinta da noi in provincia per il divorzio, i litigi per una non onorevole spartizione dei posti all’ospedale civile. E poi i giornali, dal rinato Progresso irpino a Quaderni irpini (rivista - attorno alla quale si riunirono tanti giovani, molti dei quali passati poi all’impegno diretto in politica prevalentemente nell’area cattolica - che riproporremo a breve in formato pdf), dalla Voce dell’Irpinia a Politica irpina, fino a L’Irpinia.

Infine due “aggiunte”: durante una riunione del comitato provinciale Dc dissi testualmente che “se la Dc non cambiava rotta sull’emergente questione morale avremmo vissuto una jacquerie nostrana con la gente che avrebbe assediato la sede del partito con i forconi in mano”. “Questo è un pazzo”, disse quasi sottovoce De Mita a Gerardo Bianco. E quest’ultimo: “Zitto, lascialo parlare”. Fronte comunista. In tanti oggi guardano al bel pensiero sulla città di Federico Biondi. Ma, attenzione, anche durante la giunta Aurigemma ci fu nel Pci chi lo considerò un traditore.

 

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