AVELLINO – “In questo contesto Di Nunno non poteva che essere un’anomalia, da espellere quanto prima dal sistema. Né poteva esserci posto per un Amato Barile, la cui indipendenza, professionalità e rigore morale cozzavano frontalmente con la cinica arroganza dei signori delle clientele. Oggi la città è stata “democraticamente” loro riconsegnata (significativo il peso elettorale esercitato nell’operazione dai quartieri periferici). Che coloro i quali cinici e inerti l’hanno consentito o addirittura favorito e propiziato abbiano almeno il buon gusto di tacere, e tantomeno di fare la morale a quei pochi che, esponendosi e pagando di persona, come Di Nunno, hanno cercato di dar vita ad un confronto politico autentico”.
Si chiudeva così, il 19 giugno del 2004, l’editoriale del nostro giornale, L’Irpinia, oggi quotidiano online, allora periodico in edizione cartacea, a commento del risultato elettorale delle amministrative del 12 e 13 giugno 2004 svoltesi, dopo la parentesi del commissario straordinario, in seguito alle dimissioni di Antonio Di Nunno - presentate il pomeriggio del 10 ottobre 2003 - vittima della cosiddetta “operazione canaglia”. In quella occasione fu eletto sindaco Giuseppe Galasso che ebbe la meglio su Amato Barile candidato del Patto civico ispirato da Libera Città.
Rileggendo una sera, a casa, quell’editoriale, prima di assistere ad una partita del Napoli, di cui, dopo il suo Avellino, era tifosissimo, Tonino proruppe in un “questa è la verità”. Per una ricostruzione degli eventi – su cui pure si dovrà continuare in seguito a fare analisi storica senza scomodare né l’eternità né l’aldilà – riproponiamo la lettura di quell’editoriale su cui invitiamo a riflettere, per lo meno a riflettere, quelli che Franco Festa, sul Mattino di oggi, 5 gennaio 2015, ha definito i pugnalatori di ieri.
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La netta sconfitta del “Patto Civico” alle elezioni comunali di Avellino conferma una tendenza politica da tempo in atto nella nostra provincia, segnando in sostanza la fine di una “anomalia” del sistema politico cittadino e provinciale costituita appunto dagli 8 anni e mezzo della sindacatura di Antonio Di Nunno.
Va infatti innanzitutto ricordato che la candidatura di Di Nunno, nella primavera del ’95, non costituì il logico sbocco di un discorso politico e il naturale rinnovamento di una classe dirigente. Essa fu infatti esclusivamente frutto della bruciante sconfitta subìta a livello nazionale dalla Dc-Ppi alle elezioni politiche del 27 marzo '94, sconfitta che determinò anche in Irpinia un grave indebolimento del regime partitocratico impersonato dal sistema di potere demitiano, umiliato nella persona stessa del leader, costretto a non riproporre la sua candidatura.
A dispetto delle inconfessabili intenzioni e delle oscure manovre del gruppo dirigente demitiano, le elezioni amministrative, ma a fortissima valenza politica, della primavera '95, affermarono comunque una decisa volontà di rinnovamento dei metodi di fare politica; l'elettorato dette fiducia ad un accordo credibile tra la sinistra e il centro, premiando gli uomini che lo impersonavano ed eleggendo Di Nunno a sindaco di Avellino e Anzalone a presidente della Provincia.
Estraneo agli apparati di partito e alle vecchie clientele politiche, Di Nunno, era stato lanciato all'ultimo momento e in una situazione di marasma comatoso del Ppi. La situazione appariva disperata anche ai più ottimisti degli osservatori, e tutte le previsioni davano per scontato il trionfo schiacciante della destra. Solo perché consideravano il Comune irrimediabilmente perduto i vecchi “padroni del vapore” si rassegnarono a subire la candidatura di Di Nunno, che ritenevano votato al massacro, preferendo invece puntare tutto sulla candidatura di Pennetta a presidente della provincia. Di Nunno riuscì invece a riequilibrare e alla fine a ribaltare la situazione, mentre invece il demitiano Pennetta non entrava nemmeno in ballottaggio alla Provincia.
Fu in sostanza esclusivamente il voto d'opinione (e non certo quello d'apparato, convogliato verso liste di comodo, inizialmente accreditate da pilotati e compiacenti mass media di mirabolanti successi, poi non realizzatisi), a decidere della contesa.
Paradossalmente, tuttavia, nello stesso successo di Di Nunno stavano “in nuce” tutti gli elementi che ne avrebbero reso ardua e problematica l’esperienza sindacale. Subìto e non accettato dall’establishement demitiano, né tantomeno amato, Di Nunno aveva in effetti la sorte segnata: sopravvivere adottando un ruolo di basso profilo, politico e personale, rassegnandosi ad amministrare per conto terzi, oppure cedere e andarsene, rinunciando al suo programma di rinnovamento. La contraddizione, delineatasi sin dall’inizio (anzi, se si può dire, prima ancora di cominciare), era poi destinata a sempre più aggravarsi nei mesi e negli anni per effetto della caduta delle illusioni del rinnovamento e per il ricompattamento del regime.
Il fallimento delle vecchie formazioni politiche e delle loro classi dirigenti, che aveva sembrato aprire per un momento scenari inediti e prospettive inattese, non aveva infatti aperto in Irpinia alcuno spazio politico nuovo. Anzi, a partire soprattutto dalle elezioni politiche del ’97, si è avviata una formidabile operazione consociativistica e trasformistica, che oggi significativamente culmina, finalizzata alla perpetuazione di vecchi e consolidati equilibri di potere e che passa attraverso il sacrificio della linea politica del rinnovamento.
Protagonisti indiscussi di tale operazione sono stati il Ppi (poi riciclatosi nella Margherita, in realtà null’altro che le vecchie clientele demitiane con qualche marginale recluta di complemento) e il Ds. Quest’ultimo – a causa della sua concezione e prassi stalinista, che finalizza la politica al potere – è stato affascinato dalla perdurante e vischiosa forza del sistema di controllo demitiano, per cui ha indirizzato tutta la propria azione politica ad associarvisi, mirando alla lunga, machiavellicamente, a fagocitarlo e a sostituirsi ad esso. Tutt’altro che rassegnato al ruolo di padre nobile e a gestire garbatamente il proprio tramonto politico, De Mita si è da parte sua mosso con decisione e spregiudicatezza per inserirsi nelle contraddizioni e nelle crepe dell’Ulivo. E avendo sostanzialmente accettato i Ds di ridurre il processo di transizione politica ad un'operazione verticistica, gestita tra singoli leader, è evidente che a prevalere non poteva essere che la logica ferrea della conservazione del potere, destinata oggettivamente a premiare la linea demitiana.
Ma proprio il “ritorno” di De Mita ad un ruolo egemonico era inevitabilmente destinato a far esplodere, alla lunga, le contraddizioni del precario equilibrio politico-amministrativo uscito dalle elezioni del ’95. E’ più che noto come il controllo del Comune di Avellino abbia sin dal 1970 ricoperto un ruolo centrale nella strategia demitiana di occupazione del potere provinciale, e come quindi più che a malincuore esso fosse stato almeno parzialmente abbandonato nel ’95. Era quindi inevitabile che la ripresa e il rilancio del potere demitiano passassero attraverso il tentativo di ripristinare tale controllo. Un ostacolo grave a tale operazione era però costituito da Di Nunno, rivelatosi intrattabile e indisponibile ad ogni logica di condizionamento o di recupero. Di qui il progressivo “vuoto” politico creato intorno alla giunta da parte del Ppi, di qui l’escalation delle polemiche, delle punzecchiature e delle provocazioni, sino all’esplodere irrevocabile della crisi.
Il dissidio stava sostanzialmente nella realtà stessa delle cose, oltre che delle persone, e il “divorzio” era non quindi solo inevitabile, ma anzi c’è da stupirsi che sia sopraggiunto così tardi.
Si giunge così, dopo la convergente manovra Margherita-Ds che ha portato allo strangolamento della giunta Di Nunno, alle dimissioni di questi (estremo, disperato gesto che cercava di far appello all’opinione pubblica cittadina) e allo scioglimento del Consiglio comunale, al risultato elettorale del 12-13 giugno. Che dire? I soliti Soloni hanno pontificato e sentenziato che il “Patto Civico” era politicamente sbagliato, che la rinuncia ai simboli di partito è stato un errore, che la collocazione in esso di “Libera Città” era incongrua ed ha disorientato l’elettorato, eccetera. Considerazioni tutte labili ed opinabili, che non spiegano in realtà nulla. Come quella, ancora più incredibile, che il programma del “Patto Civico” fosse solo in funzione di sterile contrapposizione a De Mita, che sarebbe anzi stato violentemente attaccato e addirittura polemicamente aggredito. Cosa che non può che indurre al riso e all’evocazione del “superior stabat lupus” di esopiana memoria chi anche solo sommariamente ricordi il linguaggio – per non dire il turpiloquio – al quale con impegno degno di miglior causa si è abbandonato lo statista di Nusco contro gli avversari, da Di Nunno a Zecchino.
Si è trascurato in realtà l’essenziale e lo strutturale, e cioè il profondo falsamento del libero gioco democratico. Per decenni, sino al 1994, in Irpinia non vi era stata vera politica, e quindi vera democrazia. Quella che veniva spacciata per tale era in realtà una democrazia manipolata, cioè un gioco per pochi iniziati, relegati in un limbo asettico e astratto, dove non giungevano né avevano udienza i problemi concreti della gente e del paese reale (lavoro, sanità, scuola, servizi, ambiente, cultura ecc.). Tutto si svolgeva grazie a complesse alchimie partitiche e correntizie, basate essenzialmente sull'occupazione della società civile e sulla lottizzazione di ogni realtà esistente, allo scopo di perpetuare e riprodurre i vecchi equilibri del potere. Gli effetti di tale degenerazione della politica risultarono alla fine evidenti. Le manifestazioni più macroscopiche erano costituite dal “boss system” e dalla “sovranità limitata” degli amministratori, che non rispondevano agli elettori e all’opinione pubblica, ma solo ai “padrini” politici che li avevano designati.
In tale ambiente e sistema – antropologico prima ancora che politico – la formazione e il rinnovo delle classi dirigenti sono sempre risultati assai ardui e difficili. La “genialità” del “boss system” imperante non è consistita soltanto, come superficialmente si ritiene, nell’occupazione “scientifica” del potere e nella sua cinica quanto spietata gestione. Più sottile e devastante sono stati infatti il blocco, lo snaturamento e la selezione alla rovescia che per decenni si sono imposti a danno del delicatissimo processo di formazione e di circolazione delle élite. Queste, da classe dirigente sono state progressivamente ridotte ad un ruolo puramente esecutivo, subalterno e di servizio, abituate dall’obbedienza più servile, piatta e conformistica ad essere nient’altro che una docile casta privilegiata di “yes man”, diligenti esecutori di una politica meramente clientelare, con i risultati catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti.
Ancor peggio, si è tagliato ogni legame tra la società civile e la classe politica, distorcendone profondamente i rapporti, di talché la prima, lungi dall’esprimere la seconda, è stata da essa dominata, occupata e colonizzata. Si è realizzata così una peculiare via irpina allo Stato assistenziale “dalla culla alla tomba”, passando attraverso il posto di lavoro, il successo imprenditoriale, l’affermazione professionale, la cooptazione nel personale politico-amministrativo e quant’altro.
In questo contesto Di Nunno non poteva che essere un’anomalia, da espellere quanto prima dal sistema. Né poteva esserci posto per un Amato Barile, la cui indipendenza, professionalità e rigore morale cozzavano frontalmente con la cinica arroganza dei signori delle clientele. Oggi la città è stata “democraticamente” loro riconsegnata (significativo il peso elettorale esercitato nell’operazione dai quartieri periferici). Che coloro i quali cinici e inerti l’hanno consentito o addirittura favorito e propiziato abbiano almeno il buon gusto di tacere, e tantomeno di fare la morale a quei pochi che, esponendosi e pagando di persona, come Di Nunno, hanno cercato di dar vita ad un confronto politico autentico.
L’IRPINIA