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    18/01/2025

23 novembre 1980/Quei terribili e interminabili novanta secondi di distruzione e sgomento

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Politica10_ter.jpgAVELLINO – Ricorre il 43° del terremoto della Campania e Basilicata del 23 novembre 1980, non particolarmente celebrato perché non è un anniversario tondo mentre il passar del tempo tende a sfocare inesorabilmente la vividezza della memoria, anche se resta un evento scolpito nella storia recente di incancellabile potenza evocativa.

Si assottiglia il numero, ancora foltissimo, di coloro che ne hanno memoria diretta e consapevole perché lo hanno vissuto e si tramanda il ricordo indiretto, naturalmente meno sofferto e puntuale, nella conoscenza delle giovani generazioni, nate e cresciute nei decenni successivi al 1980.

La calamità fu apocalittica. Alle 19,34 e 52 secondi di domenica 23, insolitamente afosa per una serata di fine novembre, una scossa ondulatoria e sussultoria di inaudita durata e violenza (magnituto 6,9 della scala Richter corrispondente al decimo grado dalla Mercalli) – preceduta da un boato sconvolgente – si abbatté distruttivamente su 17.000 kmq dell'Italia Meridionale nelle zona appenninica dall'Irpinia al Vulture.

Il sisma attraversava il confine tra Campania, Puglia e Basilicata sconquassando in larga parte le province di Avellino, Salerno e Potenza e diverse altre in onda ridotta (compresa Napoli e la sua area metropolitana), su un'area estesissima corrispondente all'intero Belgio, con l'epicentro localizzato tra le viscere dell'Appennino campano e lucano.

Negli eventi epocali il ricordo collettivo del fatto storico si coniuga con la memoria individuale del particolare vissuto di ciascuno. Nessuna delle persone allora residenti non solo in Irpinia ma in tutta la Campania e la Basilicata dimenticherà mai dove si trovasse e cosa stesse facendo in quei terribili ed interminabili novanta secondi di distruzione e sgomento, che avrebbero determinato quasi 3.000 vittime e più di 8.000 feriti oltre che circa 250.000 senzatetto ed enormi danni al patrimonio edilizio pubblico e privato.

Venne subito in drammatica evidenza il grave ritardo e la inadeguatezza delle operazioni di soccorso, determinato da una serie di cause oggettive, con inefficienze per giorni al centro della censura mediatica, del dibattito pubblico e della polemica politica, sino a far sfiorare la crisi di governo.

In realtà l'oggettiva insufficienza ed intempestività della macchina dei soccorsi – che impegnò circa cinque giorni per spalmarsi visibilmente sull'intero territorio colpito – fu determinata innanzitutto dalla enorme ampiezza ed estensione delle aree colpite, soprattutto interne e montane, e dalla accidentata orografia del territorio, spesso difficilmente accessibile; dalla parziale interruzione del sistema delle comunicazioni; dalla circostanza della domenica sera sfavorevole alla immediata concentrazione delle poche forze disponibili in loco; dalla fitta nebbia che rallentava le operazioni di trasferimento e dalla non conoscenza dei luoghi da parte delle colonne di soccorritori provenienti dall'esterno; dalla inagibilità e dal crollo di centri strategici per la gestione dell’emergenza, come il palazzo della prefettura di Avellino, municipi e comandi carabinieri (a Sant'Angelo dei Lombardi il sindaco Castellano ed il capitano Pecora perirono sotto le macerie lasciando il Comune, in cui era crollato anche l’ospedale, privo di autorità locali).

Martedì 25 novembre il presidente della Repubblica Sandro Pertini si recò in visita alle zone terremotate dell’Irpinia e del Potentino e, constatata personalmente la insufficiente attivazione dei soccorsi, esternò il suo dolore ma anche la sua indignazione in un messaggio televisivo a reti unificate, che suonava come una forte critica all’operato delle strutture statali.

L’esternazione inusuale e vibrante di Pertini mise in seria difficoltà il governo  in carica presieduto da Arnaldo Forlani, determinando le dimissioni poi (faticosamente) rientrate del ministro dell’Interno Virginio Rognoni che decise la “rimozione” del prefetto di Avellino Attilio Lobefalo – sostituito dal neo-promosso Carmelo Caruso – e la nomina dell’on. Giuseppe Zamberletti a commissario straordinario delle zone terremotate, il quale assunse la direzione delle operazioni di soccorso divenendo l’efficace protagonista dell'avvio della ricostruzione oltre che il pioniere dell’organizzazione della nuova protezione civile.

La crisi politico-istituzionale rientrò, limitandosi alla sommaria individuazione del classico “capro espiatorio” nella figura del prefetto Lobefalo che pure, sin dal verificarsi dell'evento, aveva operato con tutte le sue umane possibilità veicolando le richieste di soccorso alle incredule autorità centrali ma versando nella oggettiva impotenza di fronte ad una così catastrofica emergenza gestibile solo dal livello nazionale.

Lobefalo venne poi immediatamente prosciolto nella indagine giudiziaria aperta dal procuratore di Avellino Gagliardi per l'accertamento di eventuali responsabilità omissive nell'attivazione dei soccorsi e nel 1983 fu riabilitato dall’amministrazione con la nomina a prefetto di Chieti ma gli è rimasto ingiustamente affibbiato il luogo comune di “prefetto del terremoto” ovviamente in accezione negativa.

Gli subentrò il 26 novembre, nella prefettura provvisoriamente trasferita presso la caserma dell’Esercito Berardi, il brillantissimo Carmelo Caruso, prefetto ricco di iniziativa, empatia e capacità manageriali, che esercitò le funzioni in Irpinia per circa un quadriennio, instaurando un rapporto di straordinaria collaborazione con i sindaci e le autonomie locali per poi sviluppare una prestigiosa carriera (che lo avrebbe portato alla direzione dell'ufficio legislativo del Viminale, agli incarichi di prefetto di Milano e di Roma, di direttore di gabinetto del Senato e consigliere di Stato). Tuttavia, nonostante la sua positiva incidenza nella ricomposizione dei circuiti istituzionali e la notevole popolarità a suo tempo acquisita, si è purtroppo sbiadita la memoria del prefetto Caruso, oggi nemmeno celebrata nella toponomastica, non sempre brillante nella individuazione delle figure più ricordevoli (Cfr. Caruso, il prefetto del terremoto al servizio dell’Irpinia).

Accanto alle disfunzioni e alle polemiche si manifestò, sin dall'immediato post-terremoto, anche la grande pagina della solidarietà, attraverso un massiccio apporto dei volontari accorsi nei centri colpiti da ogni parte d'Italia, l'afflusso delle donazioni, gli aiuti internazionali provenienti dagli Stati Uniti, dalla Germania, dalla Francia, dagli altri Stati europei e persino, in denaro, dai Paesi Arabi, che hanno lasciato tracce significative. Si pensi ad esempio, ad Avellino, all'attuale Conservatorio musicale donato dagli americani, al cd. “centro australiano” dell'Asl dedicato alla riabilitazione pediatrica, al centro sociale “Samantha della Porta” (la più piccola delle vittime del terremoto), donato dalle organizzazioni sindacali, così come tante altre significative strutture dislocate nei comuni terremotati.

L'avvio della ricostruzione, con la destinazione di massicci finanziamenti statali, determinò anche un insidioso tentativo di infiltrazione negli appalti e di aggressione da parte della camorra imprenditrice campana e “cutoliana”, culminata in alcuni fatti di sangue e in particolare nel fallito attentato al procuratore Gagliardi. Tuttavia la incisiva e decisa risposta dello Stato, attivata dalla magistratura e dal prefetto Caruso – che coniò lo slogan del “muro di popolo” contro la camorra e della pubblica amministrazione come “casa di vetro” – in uno al tessuto sostanzialmente sano dell'Irpinia e dei suoi amministratori locali determinarono la sconfitta di questa pericoloso tentativo, all’inizio degli anni Ottanta.

Dopo la fase della prima riparazione e riattazione di edifici danneggiati si apriva, con l'approvazione della legge speciale 219/81, il lungo complesso ed articolato processo di ricostruzione pubblica e privata e di sviluppo industriale delle aree interne terremotate che – con molte luci e qualche ombra – ne ha determinato nell'ultimo quarantennio la trasformazione infrastrutturale e strutturale, oggi sostanzialmente assimilata nell'attuale e più evoluto assetto urbano e territoriale.

Il capitolo definito più facilmente e rapidamente è stato quello della ricostruzione rurale delle case di campagna, trasformate in dignitose villette, a cui è seguito – quello molto più complesso e tribolato – della ricostruzione privata in sito e fuori sito, mediante l'adozione di appositi strumenti urbanistici, con alcuni strascichi aperti ancora oggi. Le difficoltà della strumentazione urbanistica “ad hoc”, il frazionamento e la litigiosità delle proprietà private nei condomini con i relativi contenziosi, i vincoli, i periodici esaurimenti dei fondi disponibili poi via via rifinanziati dal Cipe, le problematiche interpretative, ecc. hanno reso il processo estremamente lento e faticoso ma oggi tuttavia in larga parte completato, con la soddisfacente ricostruzione dei centri storici ed anche mediamente con buoni risultati di architettura e di rinnovata edilizia.

La ricostruzione pubblica, finanziata con i fondi della 219 ha consentito di realizzare importanti opere infrastrutturali di rafforzamento dei servizi e dell’armatura urbana, come ad esempio ad Avellino la Città ospedaliera, il Palazzo municipale, il Teatro comunale, l’autostazione, gli assi stradali, ecc..

Parallelamente alla ricostruzione civile e commerciale veniva avviato il massiccio ed articolato programma di sviluppo industriale con la infrastrutturazione ex novo di diverse aree per insediamenti produttivi in montagna (Nusco, Lioni e Sant'Angelo, San Mango, Calabritto, Conza, Calaggio-Lacedonia, Porrara-Sant'Angelo, Morra De Sanctis in Irpinia, ecc.) incentivando  l'insediamento di nuove imprese, con risultati alterni , in alcuni casi di significativo impatto economico ed occupazionale ed in altri casi deludenti ed infruttuosi per il territorio, laddove per contrastare lo spopolamento dei comuni interni occorre uno sviluppo imperniato sulle vocazioni e potenzialità locali.

Il sisma del 23 novembre 1980 ha certamente rappresentato lo spartiacque tra il vecchio ed anacronistico modello di protezione civile, statalista ed assistenzialista del post-evento, al nuovo sistema del servizio nazionale a rete - poi normato dalla legge 225/1992 - fondato sulla previsione e prevenzione, sulla piena responsabilizzazione dei poteri regionali e locali, sull'integrazione del volontariato organizzato, sui raccordi tra amministrazione e comunità scientifica, sulla pianificazione multi-livello di protezione civile.

Il biennio 2020/22 è stato segnato da una delle più catastrofiche emergenze sanitarie e civili della storia contemporanea, di livello mondiale, quale la pandemia da Covid/19 di prolungata durata e con uno straordinario numero di vittime, che ha nuovamente messo in discussione i modelli organizzativi di protezione civile e le reti di assistenza ed intervento, a cui ora sta facendo seguito in Europa la straordinaria stagione della ripresa con massicce progettualità ed investimenti, sintetizzati nella taumaturgica formula del Pnrr. Come in tutte le fasi storiche, e come avvenne anche dopo il terremoto del 1980, potrebbe dirsi «post fata resurgo».

In definitiva oggi il terremoto del 1980 rappresenta un ricordo non più vicinissimo ma nemmeno lontanissimo dalla nostra storia recente che tuttavia ci ha trasformato ed ha posto le basi del nostro presente e della nostra contemporaneità. Non bisogna essere reducisti e nostalgici, inutilmente rivolti con la testa all'indietro guardando al passato ma nemmeno smarrire la necessaria consapevolezza della memoria che appartiene necessariamente alla nostra cultura.

 

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