Le liberalizzazioni proposte o attese per rendere l’Italia un Paese moderno e per rilanciarne l’economia non sono soltanto quelle riguardanti mercati, reti, sistemi economici e legislativi e concentrazioni aziendali. Ad avere bisogno di un magnifico scossone per fare entrare aria in istituzioni e palazzi serrati per non farvi entrare mai un raggio di sole ci sono, al contrario, mondi isolati, pezzi del nostro Paese che hanno necessità di un detonatore perché tutto cambi davvero.
Uno di questi mondi è il Meridione d’Italia, contesto storicamente, socialmente e geograficamente oltre che – oggi bisogna aggiungerlo – giornalisticamente ben definito.
Liberalizzare il Sud cosa significherebbe? Significherebbe restituire al velivolo Italia quel motore sull’ala in eterna avaria. Come farlo? Spazzando via metodi, gruppi di pressione e di controllo, il modo stesso dello Stato di essere presente nelle province meridionali. Forse si potrebbe azzardare su questa parte del Paese la modernizzazione che l’Italia chiede sul fronte della pubblica amministrazione nella liberazione dell’oppressione burocratica. Oppressione che soffoca tutta l’Italia che vuol muoversi, e che costa tanto con i suoi tre milioni e mezzo di burocrati (un costo elevato che potrebbe invece essere messo a sostegno di ricerca, università, sviluppo ad esempio) ma che nel Sud per una per una «felice»…collisione apparato savoiardo-storici immobilismi meridionali espresse la ormai mitica questione meridionale.
Ed allora rivediamo il sistema statale nel suo espandersi sul territorio. Ripartiamo dalla prefetture che nell’Ottocento avevano al loro interno tanti uffici – come la questura, ad esempio, o le intendenze – che servivano allo Stato per distendersi sul territorio, per controllarlo più che per coglierne esigenze e potenzialità.
Quelle prefetture, i tanti uffici che partorì (in pratica ogni ministero ebbe la sua quasi altezzosa presenza in ogni capoluogo di provincia) ebbero una caratterizzazione ossessivamente opprimente durante il fascismo caduto il quale non si pensò ad inserire nella bella e innovativa Costituzione repubblicana lo Stato nuovo anche sul territorio.
La ricostruzione del Paese fu intesa in senso edilizio, finanziario, industriale, certamente anche sociale. Ma lo Stato no. Quello sul territorio rimaneva uguale, propaggine di un sistema che era stato monarchico (che aveva assorbito la filosofia centralista napoleonica) ed era poi servito ad una dittatura. Non potevano certo essere le Regioni – istituite peraltro ventidue anni dopo la nascita della Repubblica – a risolvere d’incanto il problema. Allora fu coraggiosamente posta (soprattutto dalla sinistra) la questione dell’abolizione delle prefetture. Oggi c’è l’inversione ad U, come si dice in senso automobilistico: si stanno eliminando le Province che in quasi nessuna pratica fa da filtro e impedimento sia in senso Stato-cittadini che in senso inverso. E comunque è il primo livello di autonomia territoriale che andrebbe incoraggiato e non distrutto. Semmai ci sarebbe da verificare quante volte le Regioni hanno finito per fare da tappo ad iniziative che partivano dal basso o anche dalla distante Roma.
Quante volte sindaci, semplici cittadini o imprenditori si sono dovuti fermare davanti a porte o sportelli perché la loro pratica era in mano all’ingegnere Tizio o al dottor Caio? Proviamo a rovesciare il tavolo almeno per i Comuni (ma questo è un esempio che può valere per tutta la filiera burocratica del Paese). Diciamo allora che non è più la pratica che deve viaggiare verso Roma o il capoluogo di regione ma che è il funzionario statale o regionale a doversi recare presso il piccolo Comune richiedente l’approvazione di un progetto (e relativo finanziamento) per valutare in contraddittorio la fondatezza e l’ammissibilità dell’iniziativa.
Per aprire questa strada fu inventata la “conferenza dei servizi” subito silurata dalla mancata presenza di qualche rappresentante degli organismi pubblici convocati o con la formula “salvo verifiche” aggiunta alla fine del provvedimento di approvazione di un progetto: vogliamo provare a battere così la burocrazia? Ed il resto? La classe dirigente meridionale, i politici in particolare, i medici onnipotenti, i baroni delle università ed i totem dell’imprenditoria?
Ecco, per costoro occorre una forte azione di ripulsa da parte della società sana (non basta la gioventù a garantire il repulisti; quest’ultima ci ha regalato anche il terrorismo, ha ucciso Moro e ci ha detto che Prodi andava cacciato – come Monti oggi – per avere un futuro sicuramente migliore…).
Se fosse possibile dovremmo arrivare ad una nuova costituente che abbia però una portata rivoluzionaria moderna. Una sorta di rivoluzione francese quanto ad audacia e a rinnovamento.
Vivesse oggi, Robespierre si arrabbierebbe certamente molto ma capirebbe subito che stavolta più che far cadere teste nelle ceste insanguinate potrebbe e dovrebbe al massimo cacciare tanti con pedate nel sedere.