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    03/07/2024

L'anniversario/La città e l’orgoglio. L'amore di Di Nunno per Avellino

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Antonio Di NunnoAVELLINO –  Celebrata dal parroco, don Emilio Carbone, si terrà mercoledì 3 gennaio 2024, nella chiesa di Costantinopoli di via Umberto I, una messa di suffragio in ricordo di Antonio Di Nunno, l’ex sindaco di Avellino scomparso 9 anni fa, il 3 gennaio del 2015.

Gli amici di sempre si ritroveranno insieme anche per ricordare altri amici di Di Nunno che ci hanno lasciato in questi anni tra cui Franco D’Onofrio, Mario Cesa, Aurelio Martino, Francesco Saverio Festa, Gennaro Bellizzi, Giuliano Minichiello, Nardino Ventullo, Angelo Barone, Fausto Addesa, Ettore de Socio, Armando Montefusco, Rosanna Rebulla.

Il nostro giornale, insieme col comitato promotore, ha in allestimento per la fine del prossimo mese di gennaio, in occasione appunto del nono anniversario della scomparsa, un convegno nel corso del quale sarà presentato un libro in memoria di Tonino con il contributo e la testimonianza di amministratori, amici, politici, giornalisti.

Qui di seguito, intanto, riproponiamo uno degli articoli che Di Nunno scrisse su L’Irpinia il 20 dicembre del 2014 dal significativo titolo La città e l’orgoglio.

*  *  *

Partiamo da molto lontano per entrare nel più che interessante articolo-provocazione dedicato sul Mattino nei giorni scorsi da Generoso Picone al doppio concomitante tema della (non evidente) bellezza della città e della eventuale reazione orgogliosa dei suoi cittadini rispetto al bello, al brutto, all’incontaminato, alla storia di Avellino, storia antica, il suo lento crescere (poco), le sue vicissitudini (dalle periodiche invasioni – con tanto di nuovo regime che si stabiliva dentro le sue mura, le scorribande sanguinose e ladresche delle orde di Masaniello – alle signorie nascenti, all’attesa del “cambiamento” napoleonico, alla sotterranea rivolta risorgimentale, alla possibile corsa verso la modernità), il suo esser realizzata (la città) su un dorso che separa due torrenti, condizione che da sempre caratterizza il suo habitat, fatto anche di corone di colline o di catene montuose.

Nel partire da lontano ci piace riferirci ad un episodio – in realtà sarebbero due – che vide un po’ di animazione in Avellino: era stata portata a termine la costruzione di quello che rimarrà uno degli edifici più belli e dignitosi della città, costruito a sua volta in un angolo non irrilevante della nuova Avellino che stava sorgendo su una “porta”, fino ad allora inviolata, quella di Corso Littorio-via Roma. Per quell’edificio, oggi museo irpino e biblioteca provinciale, spese il suo non irrilevante bagaglio professionale l’architetto Francesco Fariello, e scrisse un significativo e bellissimo articolo su un settimanale nostrano, Irpinia Nuova, che visse poco più di anno, l’allora giovane architetto Aldo Vella, professionista e politico di qualità che conquistò con il solo appoggio di Rifondazione comunista il Comune di San Giorgio a Cremano dove gli elettori lo preferirono ai candidati delle due componenti di una Democrazia cristiana ormai morente, ma pur convinta di perpetrare il suo sistema di potere nelle aree a ridosso di Napoli.

In quell’articolo Aldo Vella segnalava che l’edificio progettato da Fariello andava ad inserirsi in un contesto particolare. Inserimento da pochi notato: l’orto botanico con a Sud il vallone Fenestrelle giù e le colline di contrada Bagnoli, delle Selve in alto. Sul lato opposto, a Nord, l’orto botanico oltre il quale si scorge la magnifica e imponente mole del liceo “Colletta”, di epoca borbonica, con intitolazione ad un grande protagonista delle lotte per dare a Napoli ed al Sud un mondo nuovo.

Oltre quel contesto l’imbocco dello stupendo viale dei Platani ad Ovest e dell’ottocentesco Corso Vittorio Emanuele ad Est mentre proprio all’ingresso di via Roma, su un lato dell’orto botanico, si presentava l’opera pulita, senza fronzoli (testimonianza di un’epoca) di uno dei più interessanti architetti del periodo fascista, Enrico Del Debbio, il progettista del complesso del foro italico a Roma, che per Avellino progettò la “Casa della gioventù littoria”, poi diventata cinema, che ancora oggi si cerca di salvare assieme al complesso di uffici ed alla torre dell’arengario.

Quella singolare concentrazione di verde e di edifici di pregio indicano in quel punto un luogo bello e centrale di Avellino. ma quanti hanno tratto motivo di orgoglio per questo particolare contesto? Proprio pochi per non dire nessuno. Diciamo la verità. Chi può essere orgoglioso di un singolo, per quanto “composto” incrocio architettonico? Tanto più che di lì a poco proprio l’edilizia avrebbe rappresentato – con l’orrido massacro del territorio che ne derivò – l’isolamento e la scomparsa della città originaria, quella compresa tra il “largo” ed i resti del castello.

Proviamo allora a partire dai ricordi. Irpinia Nuova cita l’angolo bello della città (sottolineatura del 1962 del giovane architetto Aldo Vella), ma è di un anno prima la mobilitazione di studenti che ci fu, su iniziativa dell’indimenticato don Ferdinando Renzulli, in occasione dell’eccidio di dieci aviatori italiani a Kindu, in un Congo Belga sulla difficile via di una sanguinosa indipendenza (1961). I nostri aviatori stavano portando in un punto difficile di quella nazione medicinali e mezzi di supporto. Furono assediati e ridotti a brandelli.

L’emozione nel nostro Paese fu enorme. Quando Sergio Zavoli lanciò alla radio ed in tv l’idea della realizzazione di una cappella votiva nell’aeroporto di Pisa (città dove gli aviatori massacrati erano di stanza) fu letteralmente sommerso dalle offerte degli italiani. Fu così che la cappella votiva divenne un tempio…

Ma in quella circostanza – e qui veniamo ad un ricordo, ad un’emozione completamente nostri – furono le comunità locali a mobilitarsi. Uno straripante fiume di studenti, partendo dall’incrocio scolasticamente storico via De Conciliis-Corso Vittorio Emanuele, raggiunse disciplinatamente il duomo dove fu celebrata la santa messa e dove parlarono – esprimendo il loro dolore – due giovani studenti di colore – allora più che una rarità – portati da don Ferdinando Renzulli in cima alla collina della Terra.

Come tante altre volte avremmo potuto cogliere l’occasione per pensare e fare altro. Invece no. L’emozione fu tanta che rimanemmo tutti nel duomo. Quella giornata è stata sempre difficile da dimenticare. E di quella giornata gli studenti avellinesi andarono sempre orgogliosi. Certo ci sono stati altri “pianeti” sui quali provare ad esercitare orgogliosi ricordi. Lo furono gli incredibili dieci anni di serie A dell’Avellino, quando da tutta l’Irpinia ogni domenica si riversavano in città migliaia di persone, un popolo.

Così come si potrebbero ricordare gli anni della politica con protagonisti indiscutibili intellettuali e dirigenti irpini. Non è il caso di parlare di orgoglio? E perché no? E poi perché negare che alzando lo sguardo gli avellinesi ammirano – e si identificano – in quel raro incrocio di ambiente, storia e cultura che è Montevergine? Anche quell’incredibile montagna fa parte della nostra cultura e della nostra storia. E poi i padri della Repubblica, da Guido Dorso a Fiorentino Sullo, alle grandi famiglie avellinesi. Buttiamo tutto nel cesto dei rifiuti, anche i De Concillis di cui un discendente ci ha dato quel capolavoro che è l’affresco della Pace nella chiesa di Borgo Ferrovia del quale siamo orgogliosissimi?

Ancora un “segnale”? La lapide che Mario Gabriele Giordano fece apporre su di un lato di Piazza Solimena per ricordare che lo sferragliare che si udiva dall’interno della storica tipografia Pergola era appartenuto al poeta salernitano Alfonso Gatto che lì dentro aveva “armeggiato” anni prima pubblicando la sua prima raccolta di poesie Isola. Solo ricordi? Sì, ma anche tanta dignità.

 

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