È proprio vero che la fretta non è una buona consigliera. Pressati da una crisi economica, politica e sociale senza pari dai tempi del fascismo ad oggi abbiamo dovuto varare un governo senza precedenti e quest’ultimo, a sua volta, provvedimenti da lacrime e sangue in molti casi non sempre chiari e non sempre sicuramente producenti gli effetti sperati.
È il caso della proposta di ridimensionamento della Provincia, ente in passato avviato ad una pura e semplice soppressione, poi – sempre sul piano delle ipotesi – resuscitato come “Provincia regionale” e con il governo Monti avviato a lenta liquidazione: non più elezioni alla scadenza del mandato, dieci consiglieri espressione dell’assemblea dei sindaci della provincia, pochi assessori.
Fare economie, snellire l’apparato (pesantissimo) istituzionale: questo l’imperativo. Ma il progetto del governo risponde davvero a queste impellenti esigenze? Non proprio.
La semplificazione non è raggiunta con l’abolizione dei Consigli provinciali, anzi spunta all’orizzonte un ragionamento che rimette in discussione una conquista di quarantadue anni fa: le Regioni. Volute nella Costituzione per smantellare lo Stato centralista, sono in realtà diventate una cappa oppressiva nel campo delle opere pubbliche, della sanità,, dello sviluppo. Con il passare del tempo hanno anche perduto la funzione di filtro di personale politico da mandare successivamente in Parlamento.
Superano la sufficienza le Regioni a statuto speciale perché ricevono vagonate di soldi, o le Regioni a statuto ordinario delle aree più floride del Paese. E poiché ogni regola ha la sua eccezione, ecco che una Regione a statuto speciale, la Sicilia, riesce a produrre tutti i difetti della burocrazia statale con l’aggravante di non riuscire ad innescare un processo di sviluppo in un contesto economicamente depresso, né ha saputo far vincere la democrazia e, quindi, la civiltà contro la mafia che ha espresso il massimo della sua umiliante potenza in questi nostri tempi.
Ed il rapporto delle Regioni con le Province? Quasi inesistente. E noi cosa facciamo? Anziché mettere mano a modifiche costituzionali atte ad impedire alle Regioni di chiudersi in un orticello dove vengono protetti interessi, clientelismi, indennità ed altre vergogne, andiamo a colpire le Province che almeno hanno una chiara identificazione territoriale. Si è visto anche durante l’emergenza-neve quando sono state l’unico vero punto di riferimento dei Comuni.
Ma se proprio bisogna risparmiare è mai possibile che si vada a sopprimere un ente elettivo e non si metta in discussione il vasto mondo degli uffici periferici governativi (prefettura, questura, ufficio del lavoro, comandi militari) nonché la proliferazione degli uffici provinciali dei vari assessorati regionali a dimostrazione del fatto che con le Regioni abbiamo raddoppiato la burocrazia più che coltivato l’autonomia dei territori e delle comunità? E pensare che ambiente, protezione civile e sviluppo potrebbero facilmente aggiungersi alle competenze attuali.
E che dire di Ato, Comunità montane, consorzi vari, Iacp, enti del turismo, Asi ed altro che vivono perché devono essere appannaggio degli apparati dei partiti. Pensate che economia e che effetto educativo sull’elettorato se si dicesse alla Provincia di Avellino: vuoi tutelare la montagna irpina, il turismo o l’irrigazione in Valle Ufita, organizza una struttura operativa con i tuoi soldi. Solo per investimenti strutturali puoi accedere a fondi statali.
Quanti consigli di amministrazione sciolti, quanto personale usato meglio e non sostituito al momento del pensionamento, quante economie vere, altro che quelle briciole ricavabili dall’aggressione ai piccoli Comuni dove c’è poca spesa ed una enorme riserva di civiltà.
Diciamo la verità, sarebbe come rovesciare i tavoli della politica e delle camarille. Quando si parla di queste cose torna in mente il progetto della Fondazione Agnelli sull’accorpamento delle Regioni che dalle attuali venti dovrebbero passare ad otto; otto macroregioni che porterebbero di fatto tanti vantaggi ma anche nuovi problemi che riportano a visioni “duali” dell’Italia, a relegare il Sud in un mondo a parte.
Ma questo è un altro discorso, pericoloso, che però con l’esistenza delle Province non c’entra affatto. Non sorprende che anche su questo vitale problema quelli che sono stati i big della politica irpina non abbiano da spendere parole.