AVELLINO – La zona d’interesse è un film di Jonathan Glazer. Qui di seguito la recensione di Carla Perugini.
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Fortuna che i tedeschi i muri sanno anche abbatterli, oltre che costruirli, come ha dimostrato Berlino più di trent’anni fa. Anche perché una barriera di pietre, cemento e reti pur elettrificate, non ha mai potuto impedire ai sensi vigili dei prigionieri di percepire quello che c’è al di là, e, reciprocamente, ai guardiani di far parte di quello stesso mondo escluso a cui si pretendono estranei.
Da un muro eretto dai deliranti nazisti nel campo di Auschwitz (la polacca Oświęcim) arriva ai nostri tempi, per certi aspetti analogamente feroci, un insegnamento tanto esemplare quanto vano: quelli che vi ostinate a rinchiudere, a perseguitare, a massacrare perché diversi, sono i vostri simili, lo specchio in cui potreste riconoscervi, se solo vi toglieste quella benda che vi impedisce di vedere.
Nella pellicola di Jonathan Glazer, vincitrice di vari premi a Cannes e agli Oscar, il punto di vista è capovolto: il campo di concentramento si sente, nei rumori, nelle urla, nei fuochi notturni, nel fumo dei camini, ma piuttosto che vedersi si indovina. Né sarebbe difficile scorrerne le immagini, invisibili e parallele, di cui tanti testimoni, con tutte le arti di cui l’uomo dispone, ci hanno portato a conoscenza. Quello che ancora non avevamo visto è il rovescio del KL Auschwitz, quell’altro nido dove la mostruosità ha fatto l’uovo, la linda villetta del direttore del campo di sterminio, agghindata di fiori, frutti, verdure rigogliose, piccole piscine in cui divertirsi fra parenti e amici, serviti da anonimi ebrei a cui non rivolgere la parola se non per umiliarli.
Fra un male esibito e uno camuffato dall’ipocrisia e dall’oscenità dell’ideologia, questo sconvolgente film riesce a raggiungere per elusione il massimo dell’espressività.
