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    03/07/2024

Area di sosta/La vestizione

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura7_vestiz.jpgAVELLINO – Nessun altro, in città, sapeva vestire i morti meglio di lei. Benché avesse dalla sua la scarsezza di professionisti adeguati (negli anni Trenta del secolo scorso Avellino aveva una ridotta popolazione e solo un paio di agenzie funebri), Maria Assunta era consapevole che i suoi concittadini avrebbero continuato a scegliere lei anche in caso di concorrenza. E questo non solo perché la sua età avanzata le aveva consentito di farsi conoscere ed apprezzare dalle generazioni precedenti, ma anche perché la sua non era una semplice professione ma una vera e propria vocazione.

Fin da piccola i morti, lungi dal farle paura, le erano sempre sembrati dei familiari più sfortunati, dei passeggeri scesi prima da quella barca che non si stanca mai di traghettarci da questa all’altra riva. Accompagnando la nonna materna nel pietoso compito di preparare i defunti per l’ultimo viaggio, ne aveva appreso i gesti, le parole, la misura da adoperare con chi aveva perso qualcuno.

Seppure agghindato con l’abito buono, con il colore livido del viso camuffato dal trucco e l’atteggiamento da orante quasi in rapimento mistico (quegli occhi chiusi, quel rosario fra le mani, qualche scapolario fra le vesti), nonostante tutti gli espedienti, pensava fra sé Maria Assunta, il morto restava morto, unico a distinguersi fra i tanti che ne affollavano la stanza, sia per la posizione distesa, sia per il ripetuto crollo del fazzoletto che tentava di tenergli chiusa la bocca, sia per l’inconfondibile odore che cominciava ad emanare entro poco tempo dalla vestizione.

Così che la morte finì per assumere, nel suo immaginario, l’aspetto di uno scontro, dal risultato inevitabile, fra ceri funerei e fiori variopinti, fra miasmi del feretro e olezzi di quanto si spruzzava per tenerli a bada, fra l’oscurità della stanza e la luce e l’aria a cui bisognava pur tornare, fra i lamenti e i pianti di chi sedeva attorno a quel letto e le chiacchiere, le risa soffocate, di quanti, fuori di lì, accettavano, con apparente ritrosia, il “cuònzolo” che i vicini continuavano a portare: bricchi bollenti di caffè, pasticcini, delizie varie. Il contrasto fra la vita e la morte, fra la pena per chi se n’andava e la resistenza vitalistica di chi restava, era qualcosa che ogni volta colpiva la ragazzina, lasciandola senza risposta.

Ammirava la nonna per la compostezza e l’imperturbabilità con cui svolgeva il suo compito, come se di un dovere d’ufficio si trattasse. Pur partecipando sinceramente al cordoglio, l’anziana signora non si lasciava mai sopraffare né dall’emotività né dal disgusto che qualche volta alla piccola Maria Assunta provocava degli insopprimibili conati di vomito.

Nel tempo, accresciuta la propria reputazione di professionista seria e fidata, aveva imparato a contenere qualsiasi moto dell’animo, lasciando trasparire solo un’umana compassione per chi, con la persona cara, perdeva pure il sostegno economico.

Pur nella diversità delle situazioni, alcuni rituali si ripetevano uguali per tutti, poveri e benestanti, borghesi e proletari: dalla comunicazione del lutto, che avveniva attraverso i manifesti e, per chi se lo poteva permettere, attraverso necrologi sui giornali locali, al ricevimento di parenti e amici nella casa adeguatamente predisposta, al funerale, più o meno partecipato, con la sepoltura in cappelle private o nella nuda terra.

Fu per questa mancanza di consuetudini e cerimoniali conosciuti che Maria Assunta si sorprese non poco quando si ritrovò ad entrare nell’appartamento del professore Emanuele. Da tutti i particolari dell’arredamento trasparivano un’antica eleganza e un benessere borghese, privi però di ogni affettazione o esibizionismo. La colpì l’assenza di vicini, come pure degli abituali generi di conforto nonché di manifesti per strada o sotto il portone. La moglie e i figli, numerosi come s’usava allora, erano evidentemente addolorati e sgomenti, ma solo gli occhi rossi e i visi scavati dalla sofferenza rivelavano quanto male avesse attraversato quei luoghi e quelle persone.

Con poche parole le chiesero di vestire il defunto con il suo vestito più bello, su cui vollero poggiare la toga e il tocco accademici.

Fra le mani, anziché il rosario, spiccava l’ultimo volume da lui pubblicato, prima di essere bandito dall’insegnamento per la sua inflessibile opposizione al regime fascista. La donna si sentì per la prima volta presa da un’ondata di sentimenti dimenticati: era come se avesse letto in quel volto affilato dalla malattia, nella dignità del dolore dei suoi familiari, nel silenzio che accompagnò il corteo all’uscita dal palazzo, tutta l’ingiustizia, l’arbitrio e i soprusi di cui il professore era stato vittima, insieme a tanti altri oppositori, mentre la maggioranza silenziosa ubbidiva tacendo.

Il carro funebre si mosse lentamente, seguito solo dai parenti, e svoltò nel viale alberato che conduceva al corso principale. Anche se qualche faccia si limitava a spiare dalle tendine dei balconi, i passanti, come per un tributo doveroso, si fermavano. Tutti. Si toglievano il cappello, si segnavano, qualcuno si asciugava le lacrime.

Poi ci fu un moto improvviso e insperato: un uomo per primo scese dal marciapiede e si unì al corteo. Lo seguì una coppia di sposi, e ancora un gruppo di studenti. E altri, altri, fino a riempire la larghezza della carreggiata.

La folla aumentava e sembrava non dover smettere mai di moltiplicarsi. Molti si avvicinavano velocemente ai familiari per una parola, un abbraccio, una carezza.

Maria Assunta si lasciò trascinare da quella manifestazione spontanea di popolo: per la prima volta sentì di partecipare a qualcosa di non rituale, in cui la morte gridasse alla vita: Lo sto portando via, ma i suoi insegnamenti restano qui. Fateli vostri.

 

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