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    04/12/2024

Trump versus Berlinguer

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura7_trumpberling.jpgAVELLINO – Per una coincidenza temporale ho assistito, fra ieri sera e stamattina, a due rappresentazioni, di natura e finalità completamente differenti, eppure assimilabili sotto vari aspetti alla luce di qualche riflessione. Mi riferisco alla pellicola di Andrea Segre, La grande ambizione, che ripercorre alcuni anni cruciali di un politico fra i più amati della recente storia italiana, Enrico Berlinguer, e alle votazioni per l’elezione del 47° presidente degli Stati Uniti, che ha visto come vincitore Donald Trump.

La pellicola in questione sceglie come epigrafe una frase di Gramsci: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo”, citazione esemplare del baratro che si è aperto, da qualche decennio a questa parte, fra l’individuo e le masse, che una volta era un altro modo per definire il popolo, mentre oggi per lo più si riferisce ai deliranti fans che riempiono stadi e piazze per partite di calcio o risse pre e post partita, ai branchi di turisti  in cerca del proprio spazio vitale, ai concerti di cantanti degni di tale qualifica o presunti tali, ovvero ai consumatori frementi in attesa di svaligiare il centro commerciale dove viene messo in vendita l’ultimo modello di smartfone o di sneakers.

Non più di popolo si parla ma di populismo, disciplina in cui si sono specializzati molti politici, che, sostituendo il pensiero con gli slogan e la mente con il ventre, regalano illusioni a buon mercato ai tanti che preferiscono gli imbonitori ai saggi. Non pensare, non ragionare, non riconoscere le falsità, divertirsi con quanto prima si sarebbe considerato rozzo e incivile, tutto questo sembra essere diventato la scorciatoia per far incrostare nella testa di chi ascolta o guarda le intenzioni del Trump di turno, i cui minacciosi propositi fanno breccia negli elettori più dei discorsi razionali e di buon senso di una Kamala Harris.

E Berlinguer? Trascinatore di popolo perché amato, creduto, stimato perfino dagli avversari, coraggioso nel difendere, anche davanti agli orsi del Cremlino e dopo un attentato fortunosamente scampato della stessa matrice, la sua idea di comunismo nella libertà, di un socialismo realizzato grazie a un visionario disegno di unione delle masse popolari, di estrazione diversa ma convergenti nelle aspirazioni, come quelle della Dc e del Pci, Berlinguer viene, nel film di Segre, rappresentato nella sua umanità, nella sua totalità di persona che non rinnegò mai l’appartenenza agli ideali di una comunità, pur mantenendo la propria individualità soggettiva.

Rivedere le testimonianze documentaristiche di facce, gesti, manifestazioni, sorrisi e pianti, speranze e distruzioni, di un’epoca di cui abbiamo fatto parte come ragazzi del secolo scorso, ci fa riflettere su quanto quello scorcio degli anni Settanta, anche nell’esaltazione della vittoria elettorale, covasse già in seno le tragedie e le sconfitte degli anni successivi.

La grande ambizione è una finzione artistica, sia pure basata sulla realtà. Quella di Trump si mostra come una realtà deformata in fiction, menzogna che purtroppo non possiamo spegnere con la calata del sipario. Troppi attori vi partecipano, recitando su un copione moderno nell’aspetto ma vecchio nelle volontà e nelle alleanze. Forse dobbiamo rifarci, per conservare un po’ di speranza, a un’altra citazione pronunciata da Berlinguer (un magnifico Elio Germano) nel film: “Anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall'inizio”, firmato Antonio Gramsci.

 

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