AVELLINO – Se la musica è un linguaggio, quella di Giovanni Allevi è un dialogo ininterrotto di note e parole, considerazioni esistenziali, riferimenti alla propria avventura terrena, con tutto quello che l’autismo giovanile e la grave malattia di cui ha sofferto in questi ultimi anni ha comportato nel suo cambiamento, fisico e morale.
Come ha esordito sul palcoscenico del teatro Gesualdo, dove si è esibito per una tappa del suo “Piano Solo Tour” domenica 17 novembre, “Se sul corpo non posso più contare, suonerò con tutta l’anima”. E una sorta di psicodramma è stato il suo concerto, in cui molto più che l’esecuzione musicale valeva l’interazione con il pubblico, il suo pubblico, perché platealmente affratellato con il pianista in nome della comune conoscenza del dolore, della singolare simpatia che egli emana, con quell’aspetto da folletto eccentrico, tutto capelli e scarpe da tennis, voce flebile e gestualità trascinante.
Riconosciuta l’atmosfera singolare della performance, sommersa dagli applausi e dalla corrispondenza d’amorosi sensi, bisognerà pur dire qualcosa sulla sua musica. La quale, per l’orecchio di un musicofilo, lascia non poco a desiderare. Al giorno d’oggi i palcoscenici sono abituati a esibizioni d’ogni genere, anche di livello banale o grossolano, a prescindere dagli autentici talenti che possono rendere straordinario qualsiasi tipo di musica.
Nel caso di Allevi, tuttavia, fatta la tara dell’empatia e della piacevolezza, si deve pur ammettere che come autore non brilla né per originalità (molti gli echi di un Ludovico Einaudi o di un Michael Nyman), né per forza creativa e interpretativa. Le sue sono composizioni di breve durata, prive di uno sviluppo armonico rigoroso, troppo simili a una musica “ambient” per reggere l’intensità e i tempi di un concerto. Non che si debba aderire necessariamente ai canoni classici, però i numerosi riferimenti agli studi in conservatorio ci farebbero aspettare qualcosa di più e di diverso rispetto a quelle amabili e pseudofilosofiche allusioni a una sorta di stato di contemplazione trascendentale che, incantando con le parole, sembrano celare un vuoto di contenuti.