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    03/07/2024

Acli, la presidente provinciale eletta nel coordinamento nazionale donne

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b_300_220_15593462_0___images_stories_logo_congresso_acli.jpgAVELLINO – La presidente provinciale delle Acli, Francesca Silvestri, 33 anni, avvocato, è stata eletta nel Coordinamento nazionale delle donne al termine dei lavori dell’assemblea nazionale Acli venuta fuori dall’ultimo congresso e riunitasi ieri a Roma.

Si chiude, quindi, con il rinnovo degli organismi nazionali, la fase congressuale delle Acli, incentrata sul tema: “Rigenerare comunità per ricostruire il Paese”. Un percorso che ha visto in prima linea gli attivisti ed i dirigenti della provincia di Avellino sia nelle assise locali, che nell’appuntamento nazionale, avendo come obiettivo l’allargamento della partecipazione democratica e un rinnovato impegno dei cristiani nella vita civile e sociale.

La dirigente irpina entra così, in rappresentanza dell’organismo, nel Consiglio nazionale delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani. Si tratta di un importante riconoscimento dell’impegno profuso sul territorio da Francesca Silvestri oltre che di una significativa opportunità per esprimere ai massimi livelli le analisi, le proposte e le istanze sulla condizione lavorativa nel Mezzogiorno d’Italia, in particolare sulle specificità della situazione femminile, manifestando al contempo la volontà e la necessità di riscatto delle nostre comunità.

In tal senso, per un contributo su queste tematiche, riproponiamo il testo dell’intervento che Francesca Silvestri ha fatto al 24° congresso nazionale delle Acli svoltosi a Roma dal 3 al 6 maggio scorsi e che è già stato pubblicato sulle pagine provinciali de Il Mattino lo scorso 12 maggio con il titolo I disastri del Sud, le sconfitte dell’Italia.

*  *  *

Evidentemente, consapevole del nodo che l’Italia unita avrebbe dovuto sciogliere, fu Giuseppe Mazzini ad ammonire: “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà”; e Mazzini si esprimeva così mentre generali e alti funzionari dei conquistatori piemontesi inviavano a Torino dispacci su quella sorta di Africa che a Napoli e nel resto del Sud si erano trovata di fronte.

Alcuni decenni dopo il meridionalista irpino Guido Dorso non soltanto avrebbe individuato nella conquista regia del Sud l’origine dei mali meridionali (Stato accentratore, alleanza micidiale tra sistema monarchico ed il peggio della squalificata classe dirigente locale) ma indicò anche una strada per il Sud e per tutto il Paese, e cioè una rivoluzione del Meridione contro i suoi oppressori come i nobili in caduta libera, borghesia arretrata, latifondisti di feudi secolari, burocrati dei vecchi e del nuovo regime.

Per far saltare quel sistema Guido Dorso proponeva una soluzione terribilmente attuale anche per tutto il Paese: la rivoluzione meridionale. Per il politico e studioso avellinese, infatti, era nel Sud la chiave per ammodernare l’Italia. Ribadì la sua tesi fino alla sua prematura scomparsa, sopraggiunta pochi mesi prima della nascita della Repubblica e dell’insediamento dell’assemblea costituente. Occorre una rivoluzione, diceva, per liberarci della cappa sabauda e dei nocivi residui degli apparati e dei micidiali avanzi della società pre-unitaria.

Ci voleva una rivoluzione, diceva, una rivoluzione meridionale. E poiché rintracciava nel Sud i veleni di una nazione che, anziché cercare la modernità, si affidava al fascismo di estrazione padana avvertiva: la rivoluzione sarà meridionale o non ci sarà.

Tra quelle considerazioni ed il nostro tempo c’è di mezzo la lotta partigiana del Nord (Napoli si era liberata da sola due anni prima con una rivolta popolare contro un esercito tedesco che non era quello in fuga sulle Alpi del 1945), la nascita della Repubblica e con la Repubblica, l’unico vero periodo di attenzione concreta verso il Mezzogiorno. Non a caso tra gli anni Cinquanta ed i Settanta del secolo scorso il divario Nord-Sud si ridusse di venti punti.

Fu quello – con la Cassa per il Mezzogiorno e la riforma agraria – l’unico tentativo dell’Italia unita di tornare ad un equilibrio che pure c’era –come sottolinea la Svimez – ai tempi dell’unificazione del Paese. Solo che da allora ai governi convenne sostenere le fabbriche che c’erano, e cioè quelle del Nord, visto che dopo l’unificazione, quale risarcimento, tutti gli impianti del Sud furono smantellati. Quel sostentamento a senso unico ci fu durante e dopo le due guerre. Ed il cosiddetto “miracolo economico” italiano fu in pratica alimentato da una forte iniezione di fondi pubblici e da una migrazione biblica dei meridionali verso il triangolo industriale del Nord.

Un costo sociale devastante che ha impoverito il territorio meridionale dove hanno avuto campo libero tutte le degenerazioni sociali coltivate anche dal connubio politica-interessi economici. A tale proposito conviene sottolineare che, ad onta di velleitarie ricostruzioni storiche, un presunto eldorado borbonico non è mai esistito.

Così come è ormai lontano il tempo di un serio tentativo di riequilibrio Nord-Sud registrato intorno al 1975. La generale devastazione economica di oggi assegna al Sud disastri industriali, finanziari e sociali da primati vergognosi. Trecentomila posti di lavoro perduti di cui la metà in Campania. La disoccupazione giovanile, oggi in Italia sul 30%, è attestata nel Sud sul 50%. In Sicilia, la regione che ha speso così male i vantaggi e le opportunità dell’autonomia, duecento imprese hanno chiuso. Spicca tra tutte la irrisolta crisi dello stabilimento Fiat di Termini Imerese. Così come la Fiat ha chiuso la fabbrica di autobus in Irpinia dove è claudicante anche il suo stabilimento di Avellino per la produzione di motori (Fma).

Ma prima ancora Napoli aveva perduto l’Italsider, presidio sociale prima ancora che industriale. E poi la Cirio di Casoria, l’Indesit, l’industria conserviera tra Napoli e Salerno, ed i pastifici. Forte ridimensionamento, poi, a nord di Napoli, del polo industriale di Caserta (elettronica soprattutto).

E chi ricorda più il mai realizzato quinto centro siderurgico di Gioia Tauro? È vero che oggi il mondo chiede meno acciaio, ma la Calabria ha ottenuto qualcosa in alternativa?

E che dire della storica industria aeronautica posta tra Napoli, Nola e Pomigliano decapitata della direzione e del centro progettazione trasferiti nottetempo presso Varese?

L’elenco delle sconfitte è purtroppo troppo lungo. Sarà fermata la caduta? No, se non cambierà il modo di intendere lo sviluppo. Se la società meridionale non ripartirà da quella forte autocritica richiestagli da meridionalisti come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Pasquale Saraceno, Manlio Rossi-Doria. Forse è il caso di cogliere l’occasione delle liberalizzazioni per riservare al Sud un processo di liberazione da politici, falsi imprenditori, burocrati, apparati regionali che anziché tutelare il territorio lo opprimono.

E pensare che l’avvento delle Regioni nel1970 doveva distruggere lo Stato savoiardo e accentratore che la Repubblica aveva ereditato dall’Italia monarchico-fascista. In realtà le Regioni – che negli ultimi dieci anni hanno aumentato del 75% le loro non limpide spese soprattutto nella sanità dove la Campania è la più indebitata e la Sicilia ha le liste di attesa più estenuanti – avrebbero dovuto anticipare nella pratica temi quali il federalismo, la devolution, ecc. Invece, soprattutto nel Sud, sono diventate gastaldati intoccabili dove si perpetuano tutti i difetti denunciati in particolare da Mazzini e da Dorso.

“L’Italia sarà quella che il Mezzogiorno sarà” aveva intuito Mazzini. Ma la linea d’azione l’aveva indicata Guido Dorso, e cioè una rivoluzione meridionale che salvasse il Sud e, di conseguenza, tutto il Paese.

Francesca Silvestri

 

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