AVELLINO – Red Horse. Il cavallino rosso. Questo il nome con il quale il Comando provinciale della Guardia di finanza ha battezzato una brillante operazione che ha fatto scattare le manette ai polsi di tre persone accusate di bancarotta fraudolenta, inserita in una più vasta cornice di frode fiscale. Come mai il simbolo della casa di Maranello in questa vicenda? Non perché si tratta di imprenditori rampanti, come il cavallino che caratterizza le rosse nel mondo, ma perché tra i beni sequestrati ai titolari di una ditta calzaturiera, con sede in Atripalda e opificio a Pietradefusi, dichiarata fallita, ci sono ben tre Ferrari: una F40, una Testarossa e una Ferrari Scaglietti. Veniamo ai dettagli di questa complicata indagine, coordinata dalla Procura della Repubblica di Avellino e condotta dagli uomini del Tenente Colonnello Gerardo Nocera, dettagli illustrati in una conferenza stampa dal Colonnello Mario Imparato alla presenza del Procuratore della Repubblica Angelo Di Popolo e del sostituto Maria Luisa Bruno, che ha coordinato l’attività investigativa.
La vicenda parte tre anni fa quando fu dichiarato il fallimento del calzaturificio. Le Fiamme Gialle riscontrarono gravi anomalie nella gestione dell’impresa, tra le quali la messa in essere di una serie di accorgimenti indirizzati a sottrarre beni dal patrimonio della società. Fin da subito emerse che l’amministratore unico, risultante dagli atti ufficiali, M.E., di 56 anni, nato a Prata di Principato Ultra, non era altro che un prestanome. A lui - la testa di legno, come si dice in gergo - andava il 10% sugli utili. I gestori effettivi dell’attività erano, invece, D.B.G., un cinquantenne di Montemiletto, P.R. di 48 anni, nato ad Avellino, e P.I. di 53 anni, nato a Tivoli. Per quest’ultimo già nel mese di luglio 2011 scattò la misura del fermo di polizia giudiziaria, successivamente convalidata e convertita in ordinanza di custodia cautelare in carcere, protrattasi sino alla fine dell’anno scorso. Per gli altri 3 i provvedimenti restrittivi sono stati inflitti questa mattina all’alba. I reati contestati sono bancarotta fraudolenta, ricettazione e falso. Ma in questa complessa storia sono coinvolte anche altre persone per le quali la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio. Si tratta di R.D., 38 anni, nato a Nola, e S.A., 56 anni, nato a Montemiletto, accusati di ricettazione; S.L., 29 anni, nata a Benevento e A.C., 25 anni, nato a Avellino, accusati di falso.
Il meccanismo truffaldino (nel quale, dunque, complessivamente risultano coinvolte 8 persone) si articolava in tre fasi. Nella prima, la società otteneva da una ben nota casa di produzione, ubicata nelle Marche, commesse per lavorazioni altamente specializzate. Con bilanci fittizi, mai depositati alla Camera di Commercio, il calzaturificio atripaldese riusciva a dimostrare una certa consistenza patrimoniale che, unita all’ammontare delle commesse ricevute, apriva la strada sia per l’accesso al credito sia per ottenere finanziamenti.
Nella seconda fase la società, poi andata a carte quarantotto, iniziava a creare delle passività sempre più ingenti. Accensione di finanziamenti, acquisto di autoveicoli di lusso (Ferrari, Mini Cooper, BMW, Jaguar) ed altri mezzi, mancato pagamento di imposte e contributi previdenziali ed assistenziali. I finanzieri hanno quantificato tali passività in 7.043.791,91, di cui oltre 2 milioni di euro dovuti per contributi non versati a favore del personale dipendente.
L’ultima fase consisteva nel prelevare tutte le somme depositate sui conti correnti, fino a svuotarli completamente. Nel contempo le commesse venivano trasferite ad altra società con la stessa compagine sociale e ragione sociale, destinata a prendere il posto di quella destinata al fallimento.
Insomma – dicono i finanzieri – un sistema articolato di truffe per acquisire sempre più disponibilità finanziarie, che sparivano quando arrivava la richiesta di restituzione. Per tutte, le Fiamme gialle citano un sistema ingegnoso ideato dal team truffaldino per impossessarsi di contante. Presso un distributore gestito da una società avente lo stesso asset societario del calzaturificio risultavano prelievi di carburante (mai avvenuti), ma giustificati con tanto di pezze d’appoggio. Il carburante non erogato, ma fatturato, veniva smerciato a autotrasportatori compiacenti che pagavano cash. Il contante (un autentico fiume di danaro) finiva nelle tasche dei responsabili del calzaturificio fallito. Il quadro era completato da una serie di “distrazioni” dal patrimonio della società in default : fondi sottratti mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti; illegittimi trasferimenti finanziari; beni mobili fraudolentemente trasferiti. Il valore di questi ultimi beni è stato quantificato in un importo complessivo di 1.792.066,52 euro. Ricostruire tutte le operazioni finanziarie effettuate non è stato facile giacché i documenti della società fallita o erano stati distrutti o occultati. Peraltro, a rendere più complicato il tutto, si è aggiunta la ritrosia a collaborare, da parte di alcune persone gravitanti nell’orbita societaria. Non solo, ma alcune di esse hanno tentato di alleggerire le responsabilità degli accusati, fornendo scritti e documenti finalizzati a scaricare le colpe su altri (per queste persone sono già incardinati numerosi procedimenti penali). La Guardia di Finanza, quindi, ha dovuto ricorrere ad accertamenti bancari, controlli di coerenza esterni, testimonianze di maestranze per venire a capo dell’intera vicenda. Ovviamente tutte queste operazioni non hanno fatto altro che allungare i tempi delle investigazioni. Ma alla fine i finanzieri, con la tenacia che li caratterizza, ne sono venuti a capo. Agli aspetti più squisitamente giudiziari se n’ è accompagnato un altro di natura prettamente tributaria. Sulla base di quanto accertato nel corso delle indagini, c’è stato l’assoggettamento a tassazione dei proventi di natura illecita, ammontanti a oltre 4.000.000 di euro e la contestazione di false fatturazioni per quasi 900.000 euro.