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    03/07/2024

La giustizia tra verità e dubbio nell’Avellino degli anni Cinquanta

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura3_sara.jpgAVELLINO – Recensire un romanzo è sempre più difficile. In un’epoca di “narrativa usa-e-getta” la tentazione più forte di un recensore è quella di riassumere in quattro righe una trama (spesso improbabile), che si dipana in pagine banali ed involute. Aumentano i libri da leggere una volta sola: di essi a stento nella memoria sopravvivrà il titolo.  E, tuttavia, di tanto in tanto capita di avere tra le mani un romanzo diverso in cui l’attenzione del lettore non è suscitata solo dalla trama, ma anche e soprattutto dallo stimolo alla riflessione.

A questa categoria appartiene l’ultimo libro di Claudio Sara, Il seme del dubbio, pubblicato per i tipi delle Edizioni Ensemble. Nucleo centrale della trama è una vicenda processuale ambientata nell’Avellino degli anni Cinquanta. Protagonisti ne sono gli “operatori” del settore (avvocati e giudici) e – ovviamente – i testimoni indiretti (più ancora della vittima e del suo carnefice) di un reato particolarmente odioso, quale è lo stupro. Fin dalla prima pagina sono chiari i ruoli; chiaro è anche l’accaduto; chiara la distinzione tra la sete di giustizia dei Buoni e l’ignobile tentativo del Cattivo di sottrarsi alla punizione. Ma, come tutti i romanzi che vanno letti e riletti, altri, e ben più ricchi e complessi, sono i piani di lettura.

Prima di ogni altro, il ruolo e la natura dei protagonisti. Il seme del dubbio è (anche) un romanzo sull’avvocatura. Protagonista incontrastato, infatti, ne è l’avvocato Renzo Vinsa, difensore della vittima, che trova il suo deuteragonista, almeno in sede processuale, nel difensore dell’imputato, l’avvocato Capuano. Avvocato è anche il testimone chiave della difesa; avvocato in pectore, sia pure inconsapevole di esserlo, è Sergio, il figlio di Vinsa, che nelle ultime decisive battute del processo gli fornisce un fondamentale supporto emotivo. Nulla di originale, in apparenza. Sempre più frequentemente nelle pagine della narrativa italiana più recente i lettori incontrano avvocati, talvolta improbabili. Sono gli avvocati descritti da giudici scrittori: quelli corrotti di Giancarlo De Cataldo; o quelli disincantati e demotivati di Gianrico Carofiglio. E, poi, l’avvocato Malinconico, protagonista dei bestsellers di un avvocato scrittore, Diego De Silva, anch’egli mediocre (seppure consapevole) mestierante delle aule di giustizia, cinico spettatore delle inefficienze del sistema giudiziario.

Diversa è la prospettiva di Claudio Sara, anch’egli avvocato. Quali riflessioni affollano la mente di un avvocato nelle ore che immediatamente precedono un’udienza decisiva? Come accetta le verità soggettive che il suo cliente gli rappresenta? E, ancora, quali ansie lo colgono durante l’udienza, quando il collega che difende la controparte persegue una strategia apparentemente incomprensibile? Sono solo alcune tra le domande che trovano una risposta nel romanzo. Ed emerge chiaro l’obiettivo di chi esercita la professione forense: compito dell’avvocato è garantire al suo cliente un’efficace difesa. Questo assunto ricomprende e chiarisce tutto. Spiega, da una parte, le ragioni dell’ossessione di Vinsa nella ricostruzione dei fatti; giustifica, dall’altra, gli sforzi dell’avvocato Capuano che tenta di far assolvere il suo cliente per vizi di forma, e non grazie ad una acclarata innocenza. Il discrimine tra i due è rappresentato dal rispetto delle regole del gioco e si rivela palesemente nella fase istruttoria, quando i testimoni sono chiamati a deporre davanti alla corte: quelli dell’accusa e della parte civile, sinceri sino all’ingenuità, come il padre della donna violentata che rischia di diventare il testimone più favorevole alle tesi della difesa; quelli della difesa, palesemente subornati o – quantomeno – condizionati dall’avvocato Capuano e dalla sua condotta durante le udienze.

Ma il processo non è un palcoscenico su cui si agitano giudice ed avvocati. Il processo è un luogo di intense pulsioni, lo spazio in cui si muovono i protagonisti di quelle vicende tristi che rientrano nel lato oscuro e patologico della convivenza sociale. E “triste” e “patologico” sono aggettivi che ben si attagliano ai fatti descritti nel romanzo: un’odiosa violenza sessuale subita da una quattordicenne; il ripudio del violentatore dopo un frettoloso matrimonio riparatore; le vite distrutte della giovane donna vittima della violenza e dei suoi genitori. Formidabile è la capacità dell’autore di evocare i fatti e – nello stesso tempo – di sottrarsi alla facile tentazione di una morbosa descrizione. Il coinvolgimento emotivo del lettore non nasce dalla rappresentazione del delitto, ma, piuttosto, dalle suggestioni comunicate dai protagonisti della vicenda: nessun testimone ha assistito al fatto e nessuno (nemmeno la vittima e l’imputato) lo descrive. Il delitto, però, si rivela nella disperazione del padre della giovane violentata, nel dolore composto di sua madre, nelle parole dei testimoni. Ed è un processo anomalo quello che occupa le pagine de Il seme del dubbio. Vittima e carnefice sono quasi ai margini del racconto. L’autore della violenza, il tenente Giuseppe Achilli, compare solo in un’udienza, quando, sottoposto ad interrogatorio, nega le sue responsabilità. Solo un po’ più ampio è lo spazio dedicato alla vittima, la giovane Candida Ranucci, lucida – più dei suoi genitori – nella ricostruzione della vicenda. Ma l’anomalia è solo apparente: in questo caso la storia raccontata non appartiene a chi l’ha vissuta, ma a quanti con essa sono costretti a fare i conti, o per coinvolgimento affettivo, o per ragioni professionali.

E, infine, l’ultimo piano di lettura: la ricerca della verità. Vinsa non si innamora delle proprie tesi, ma crede ciecamente nella sincerità del padre di Candida, Guido Ranucci, che più di ogni altro (anche più di sua figlia), invoca giustizia ed una giusta punizione per Achilli. Vinsa gli crede perché ha colto la sua disperazione, ha percepito la febbrile attesa della riparazione del torto subito. Un avvocato, e un avvocato come Vinsa, è un provetto psicologo. Capisce quando il cliente gli mente, quando la verità che gli viene rappresentata non corrisponde (o corrisponde solo parzialmente) al Vero. Ma può veramente esistere per un avvocato una verità oggettiva? O, piuttosto, come nel caso di Vinsa, dovrà affidarsi alle sue sensazioni e tentare di vederle trasfuse nella verità processuale, quella, cioè, che emerge nelle aule di giustizia? Oppure ha ragione Capuano, l’avvocato del tenente Achilli? Dalla sua strategia processuale, diretta a far assolvere il suo cliente per motivi di forma, emerge chiara la sua concezione dell’avvocatura: un avvocato non è un giudice, il suo obiettivo non è la ricerca della verità, ma deve solo verificare se è lecito che un soggetto imputato di un reato possa essere considerato colpevole, al di là del fatto che sia colpevole o innocente.

Al di là degli strati meno visibili, Il seme del dubbio conserva, in ogni caso, le caratteristiche di un legal thriller, come è stato già catalogato da altri. La trama regge fino in fondo; l’evoluzione della storia, apparentemente scontata, svela sorprese e colpi di scena fino all’ultima pagina. Lo stile è chiaro ed asciutto. A dispetto dei temi trattati, la competenza indubbia dell’autore consente a tutti i lettori (compresi quelli che non frequentano le aule di giustizia) di cogliere i meccanismi della macchina processuale. Da questo punto di vista, peraltro, il lavoro di Sara è ancora più apprezzabile per due motivi. Il primo è dato dal fatto che la banalizzazione e la volgarizzazione delle regole di funzionamento del sistema processuale sono fenomeni sempre più diffusi a causa della distorta versione che di esse forniscono i mezzi di comunicazione. Il secondo è direttamente connesso al contesto temporale in cui si svolge l’azione, gli anni Cinquanta del secolo scorso, quando il processo penale era regolato da norme sostanzialmente diverse da quelle che attualmente lo disciplinano.

 

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