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    22/07/2024

Nell’Avellino del dopo terremoto l’ultima indagine del commissario Melillo

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Da sinistra: Generoso Picone, Franco Festa e Toni IermanoAVELLINO – Come in un rito civile, e ritorneremo su questo aggettivo, in una sala gremita di affezionati lettori, è stato presentato questa sera al circolo della stampa di Corso Vittorio Emanuele l’ultimo romanzo di Franco Festa Il confine dell’oblio. Ultima e definitiva indagine del commissario Melillo che intreccia la fine della carriera, sta per andare in pensione, con la definitiva catastrofe di una comunità. Triste parabola di una città che abbiamo seguito evolversi in peggio, romanzo dopo romanzo, indagine dopo indagine, nel tessuto urbano e nelle relazioni civili, dal dopoguerra di Delitto al Corso, con la scomparsa del piano Valle, all’inizio della ricostruzione del dopo terremoto; senza dimenticare le razzie dei tedeschi, i bombardamenti anglo-americani e il saccheggio di avellinesi a danno di altri avellinesi. Festa cancella le speranze che Melillo ha nutrito per decenni, quelle speranze che avevano tenuto in vita o ridata una parvenza a tante vittime, cui aveva restituito dignità e lenito dolori. La vittima appariva unica, in un gioco letterario che proiettava in un futuro immediato svolte, riscatti morali e slanci civili. Non più ora: alla fine, dopo la catastrofe del 1980, quando si scatenano i sentimenti peggiori di tanti piccoli personaggi che rendono invivibile la città, il contesto -  per citare Sciascia.

Melillo, sempre più solo e isolato in ufficio e in strada, comprende che non esistono più vittime ma solo colpevoli che si mascherano nel rito dello struscio e si animano con il vocio rancoroso contro gli altri, per non guardare ai propri indicibili comportamenti, agli accomodamenti con la coscienza, alla caccia ai soldi pubblici del contributo, anzi del Contributo, con la C maiuscola, come scriverebbe mitizzandolo Vinicio Capossela. Così ci giocammo il paesaggio e cancellammo centri storici e continuiamo con la retorica del territorio.

Tre prestigiosi relatori hanno smontato e rimontato la macchina letteraria di Franco Festa: Stefano Ventura, ricercatore e creatore di uno specifico osservatorio del dopo-sisma dove archivia dati e memorie di vario genere, Toni Iermano, docente di letteratura italiana presso l’università di Cassino, e Generoso Picone, capo della redazione avellinese del Mattino nonché autore di diversi libri (l’ultimo Matria sulla città di Avellino ha visto la luce da poco).

Ventura per primo ha parlato delle difficoltà a scavare e suscitare memorie, come di un oblio obbligato, non per evitare che i corpi risentano i traumi di quel tempo, ma per tacitare le coscienze piegate dalle ricerche di scorciatoie e particulari. Sarà un elemento di colore, ma Ventura parlava ed interloquiva da Siena in collegamento audio-video: se lo avessimo immaginato nel 1980, avremmo lavorato di fantascienza e non di prevedibile e razionale innovazione.

Nel susseguirsi degli interventi tra Iermano e Picone, nella doppia veste di studiosi e critici di letteratura e di avellinesi altrettanto critici, un tema è risultato centrale: il dilemma sulla forma ed il fine di scrivere un romanzo, come nel caso di quello presentato. Il romanzo deve vivere di una propria vita, con la ricerca dell’autore di linguaggi specifici e di intrecci appropriati e va sottoposto all’analisi critica in quanto tale. Picone rielabora Gertrude Stein e declama: “Un romanzo è un romanzo “, come una rosa è solo una rosa. Oppure il romanzo è un pretesto per raccontare in una forma reinventata il reale che una ricerca sociale e sociologica restituirebbe in modo arido e asettico, nello scorrere di cifre e di pesi percentuali che non aiutano a far emergere dolori e torti, amori ed odi, il senso della vita. In sintesi, Balzac o Dostoevskij aiutano la sociologia nello scrivere.

Il confine dell’oblio si muove dunque in un paesaggio da economia della catastrofe, ma, in modo più potente di un’inchiesta, ci disvela la caduta definitiva di uomini e donne, mostrandoceli lungo le scale di un palazzo, avviluppati in una spirale che termina nello studi dell’onorevole, dove – non costretti da nessuno – depositano ed implorano bisogni e richieste, si denudano di ogni senso civico. Di questa folla, dei questuanti avellinesi in fila, il giudice del romanzo dirà: “Sono dalla mia parte, ma in fondo aspettano che la faccia finita. Invocano giustizia, fanno finta di essere felici quando vedono le luci de tribunale aperte fino a sera, ma attendono solo che quelle luci si spengano per poter tornare alle vecchie faccende. E con il terremoto tutto si è moltiplicato”. Un giudice, in un romanzo, incarna e sublima verità e giustizia.

Melillo, Iermano e Picone concordano nell’indicare il connotato della militanza civile che consiste nel far bene il proprio lavoro, pur nella consapevolezza della fine di tutte le cose, ed estendono questo tratto all’autore che giunge alla piena maturità letteraria con uno stanco e deluso commissario, con il paradosso di toccare il punto più alto ed insieme finale di un personale carico di lavoro. Nel rievocare i sarcasmi di Piovene sugli intellettuali al bar Lanzara, migliore complimento non poteva ricevere Franco Festa, laureato militante della letteratura: Iermano adopera le positive parole di “rassodamento del linguaggio”; e militante civile, il nostro Festa, per l’impegno profuso nell’Avellino dei nostri giorni, una città incolpevole nei muri eretti da tanti avellinesi colpevoli, sia pure di omissione e di cecità. Vittimisti di professione, suggerirebbe Picone.

 

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