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    03/07/2024

Minichiello, il Rambo di Melito Irpino

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Il marine Ralph MinichielloMELITO IRPINO – Quarantasei anni fa, nell’ottobre del 1969, si consumò uno dei dirottamenti aerei più lunghi della storia, che portò un Boeing 707 della compagnia aerea Twa da Los Angeles fino a Roma. Protagonista della vicenda fu un irpino, Raffaele Minichiello, emigrato all’età di 13 anni da Melito Irpino alla volta di Seattle.

Arruolatosi nei Marines a soli 17 anni, appena diciottenne fu inviato in Vietnam per partecipare a quella “sporca guerra”, che avrebbe scosso per decenni l’opinione pubblica americana ed internazionale. Il ritorno a casa, come per tanti altri reduci, fu traumatico. Molti di loro furono accolti con indifferenza, se non addirittura con ostilità, e, anziché essere considerati eroi di guerra, furono additati come i protagonisti di una pagina vergognosa della storia americana. E in molti casi una piccola scintilla bastò per alimentare la rabbia di quei soldati “senza gloria”. Minichiello fu proprio tra quelli che vissero un piccolo torto come un’ingiustizia insopportabile. Nel suo caso a scatenare la rabbia fu il mancato accredito di una parte della sua paga militare. Non avendo avuto alcuna spiegazione, progettò una protesta clamorosa che avrebbe segnato per sempre la sua esistenza: un dirottamento aereo.

Giunto all’aeroporto di Los Angeles, salì su un aereo diretto a San Francisco. Dopo alcuni minuti di volo imbracciò un fucile (all’epoca i controlli agli imbarchi erano approssimativi) e costrinse i piloti a cambiare rotta. Minichiello, però, non rappresentava il classico prototipo del dirottatore violento e senza scrupoli. Allo scalo di Denver fece scendere tutti i passeggeri, trattenendo solo l’equipaggio. All’aeroporto di New York, dove il Boeing era atterrato per un rifornimento di carburante, esplose un colpo di fucile al solo scopo di allontanare la polizia che stava tentando di porre fine al dirottamento. Solo in quell’occasione Minichiello usò l’arma. Durante tutto il volo, durato oltre diciannove ore, e fino all’atterraggio finale a Roma, stabilì un rapporto quasi cordiale con l’equipaggio: con una delle hostess mantenne contatti fino a qualche anno dopo.

Lo stesso comandante comprese i motivi e la natura del gesto del dirottatore “buono” e – successivamente – disse che Minichiello non era un criminale e che avrebbe dovuto solo essere aiutato. Scesa la scaletta del Boeing, prese in ostaggio l’ufficiale capo della sicurezza dello scalo romano e con la sua automobile lasciò l’aeroporto. Successivamente, abbandonata l’auto, fuggì a piedi. Dopo alcune ore, braccato dalla polizia, alla fine di una fuga rocambolesca, fu arrestato nelle vicinanze del santuario del Divino Amore, alle porte della capitale.

Dopo l’arresto iniziarono per Minichiello i veri guai. Con il suo gesto, che – in realtà – non aveva prodotto danni, aveva, però, commesso una serie di reati gravi per i quali la legge prevedeva pene severe: quella statunitense, in particolare, comminava addirittura la pena di morte. Fu chiaro da subito, quindi, che le sorti e la stessa sopravvivenza di Minichiello erano nelle mani della diplomazia e, più in generale, di chi avrebbe deciso in quale Paese sarebbe stato processato.

A questo punto si aprì un capitolo poco chiaro nella vicenda, che vide coinvolte direttamente le autorità americane. Dopo l’arresto la difesa dell’ex marine era stata affidata a due avvocati italiani, uno dei quali, Vincenzo Siniscalchi, era uno degli avvocati più noti e preparati del Foro di Napoli. Ovviamente entrambi si ponevano come obiettivo primario quello di ottenere che il processo fosse celebrato in Italia e che Minichiello fosse giudicato in base alle leggi italiane. Dopo alcuni giorni, però, la sorella e la madre arrivarono a Roma in compagnia di un legale americano che avrebbe dovuto assumere la difesa di Minichiello in sostituzione degli avvocati già nominati. Nel corso di un’affollata conferenza stampa egli si dichiarò possibilista sull’eventuale estradizione negli Stati Uniti: ai più sembrò evidente che l’avvocato americano non facesse proprio gli interessi del dirottatore.

Nel frattempo, le notizie riguardanti il dirottamento avevano avuto un’ampia diffusione a livello internazionale. Minichiello era sulle prime pagine di tutti i giornali americani ed italiani. Alcuni giornalisti arrivarono anche nelle campagne di Melito Irpino alla ricerca del padre che lì viveva. Ben presto, però, il caso passò dalle pagine della cronaca a quelle della politica. Gli ingredienti c’erano tutti: la guerra del Vietnam; la rabbia e la frustrazione del reduce; l’imperialismo americano che si manifestava persino nel tentativo di sottrarre Minichiello alla giustizia italiana. In breve la parabola dell’ex marine divenne un formidabile spot contro la guerra del Vietnam, tanto che in alcune città italiane le manifestazioni di sostegno a Minichiello diventavano talvolta l’occasione per inveire contro gli Usa.

La vicenda suscitò clamore anche in Irpinia. Il 9 novembre 1969, una domenica, a Pratola Serra si tenne un corteo in cui affluirono giovani provenienti dall’hinterland di Avellino. La manifestazione ebbe risonanza sulla stampa nazionale e persino sulle prime pagine di quella americana, dove comparve il nome dello sconosciuto paesino dell’Italia meridionale. Pochissimi riscontri, invece, sulla stampa locale, che pure aveva dedicato ampio spazio a Minichiello ed alla sua storia. Solo sul quotidiano Roma qualche giorno dopo in un trafiletto fu riportata la dichiarazione del sindaco di Pratola Serra che, pur esprimendo una generica solidarietà per l’ex marine, stigmatizzava la manifestazione precisando che la cittadinanza non vi era stata in alcun modo coinvolta.

Alla fine il destino di Minichiello si decise in Italia, dove fu processato e condannato a sette anni di reclusione, poi ridotti a tre anni e mezzo in appello. Grazie alla buona condotta tenuta in carcere, dopo diciotto mesi ne uscì e poté cominciare in Italia una nuova vita, che, però, fu funestata dalla morte della prima e della seconda moglie, e del secondo figlio. I tre dolorosi lutti lo prostrarono. In particolare, dopo la morte della prima moglie (deceduta in occasione del parto del loro secondo figlio, anch’egli morto) dovuta forse alla negligenza dell’équipe medica, Minichiello pianificò un nuovo clamoroso gesto, che avrebbe dovuto attuare nel corso di un convegno di medici che si sarebbe tenuto a Fiuggi.

Il suo repentino avvicinamento alla fede mise fine al progetto. Nel 1999 ottenne il provvedimento di amnistia dal governo americano, così che riuscì a rivedere gli amici commilitoni della guerra del Vietnam. La ferita, però, non si è ancora rimarginata: Minichiello ancora oggi ritiene di essere stato vittima di una clamorosa ingiustizia e lotta tuttora per ottenere la trasformazione del suo congedo da “congedo senza onore” a “congedo generico”.

Una vita da romanzo, quella di Raffaele “Ralph” Minichiello, che si prestava (e si presta) a suggestioni di ogni tipo, a partire dal racconto cinematografico: non è un mistero che anche la creazione del celebre personaggio di John Rambo fu ispirata, sia pure in parte, proprio dalla storia del marine di Melito Irpino.

 

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