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    03/07/2024

Architettura, spiritualità e condivisione nel processo di riqualificazione urbana

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura3_vanac.jpgFISCIANO (Salerno) – È in programma dopodomani alle 10.45 nell’aula Nicola Cilento dell’Università degli studi di Fisciano, il convegno di chiusura delle attività didattiche del corso di Architettura. Sull’argomento ospitiamo un intervento del prof. Roberto Vanacore, associato presso l’ateneo salernitano di composizione architettonica ed urbana, già assessore all’Urbanistica del Comune di Avellino nella giunta Foti.

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Cosa accadrebbe se si provasse ad ospitare all’interno di un’“unica chiesa” tre diversi credi religiosi? Nella lingua italiana non esiste un termine in grado di definire un edificio così concepito; forse questo non è un caso, tuttavia, in un momento della nostra storia in cui i conflitti – anche quelli religiosi – dovuti all’intolleranza, al rifiuto del diverso, all’odio per le identità “altre” dalle nostre, sono sempre più diffusi e devastanti, è indispensabile che anche l’architettura compia uno sforzo per trovare, con gli strumenti che il proprio statuto disciplinare offre, i giusti modi per proporre e promuovere una riflessione in tal senso.

Da qui è partita un’idea che può apparire rivoluzionaria: un edificio concepito come una casa di preghiera aperta alle tre religioni monoteistiche più diffuse (ebraismo, cristianesimo e islamismo), uno spazio di integrazione, convivenza e tolleranza, dove le specificità delle tre diverse culture religiose trovino il luogo di esprimersi, non elidendosi o impoverendosi a vicenda, ma trovando proprio nella condivisione degli spazi la possibilità per ampliare e potenziare il proprio modo di dare forma al rapporto tra l’uomo e Dio.

Dal punto di vista specificamente architettonico e progettuale il tema è difficile ed ambizioso: ebrei, cristiani e musulmani, pur nella comune intenzione di celebrare Dio sotto lo stesso tetto, hanno certamente bisogno di spazi separati. Le richieste funzionali delle diverse azioni liturgiche che si svolgono nelle tre diverse religioni pongono problemi impegnativi. Moschee e sinagoghe normalmente devono essere orientate verso Est. I musulmani necessitano, tra l’altro, di uno spazio quadrato al cui interno si possa pregare spalla a spalla. Gli ebrei chiedono uno spazio all’interno del tetto dove poter costruire una capanna per la celebrazione del “Sukkot” o “Festa delle capanne”. La liturgia cristiana, in particolare quella cattolica derivante dagli enunciati del Concilio Vaticano II, attribuisce grande importanza ai poli dell’azione liturgica e ai percorsi. Insomma, ogni credo ha le sue esigenze ed è difficile trovare una sintesi efficace; difficile, ma non impossibile.

Il progetto deve quindi cercare di adattarsi alle richieste, ma soprattutto di trovare un modo affinché l’edificio possa diventare un luogo di scambio tra tutte e tre le comunità di credenti. La “Casa dell’Uno” – definizione che corrisponde ad altre esperienze simili che, faticosamente si stanno portando avanti in alcune (poche) parti del mondo – è il termine che può esprimere con efficacia quest’intenzione. Tra le altre esperienze, una molto importante è stata quella sviluppata a Berlino nel 2012 con il concorso internazionale di progettazione  vinto dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi, fondato dall’italiana Simona Malvezzi e dai tedeschi Wilfried e Johannes Kühn.

Un’altra questione affrontata nel nostro lavoro è stata la scelta del sito adatto a progettare quest’edificio. Ogni progetto di architettura deve trovare un suo radicamento al luogo in cui si colloca; nei casi migliori il progetto fa proprie ed interpreta – mediante il personale modo di vedere le cose del progettista – le condizioni specifiche del sito. La capacità di un progettista nel leggere, descrivere e interpretare un luogo, insieme alla messa a punto di una chiara domanda dal punto di vista funzionale rappresentano la premessa fondamentale per un buon progetto.

All’inizio del nostro lavoro di sperimentazione progettuale abbiamo dedicato molta attenzione alla scelta del sito; la natura del progetto, le finalità ed il significato di un edificio per le tre religioni monoteistiche richiedevano un luogo adatto, non certo un luogo qualsiasi. Ma quale poteva essere il luogo adatto per un progetto così ambizioso? La scelta è nata da una riflessione che tende a valorizzare il ruolo dell’architettura come strumento per una nuova qualità urbana. Nelle città di oggi non mancano aree degradate, destinate all’abbandono e all’obsolescenza; aree frammentarie, ibride, si estendono non solo nelle periferie delle nostre città, ma spesso sono prossime anche ai centri urbani. La sfida è stata così quella di individuare in ogni città prescelta – Napoli, Avellino e Salerno – un’area degradata, residuale in cui vi sia un lotto destinabile ad attrezzature pubbliche, per fare in modo che il progetto di una “Casa dell’Uno” fosse anche il primo passo per un processo più ampio di riqualificazione urbana. Lo sforzo degli studenti è stato quindi anche quello di progettare un edificio in grado di sviluppare le potenzialità di queste aree residuali – quasi degli spazi bianchi in attesa di una definizione morfologica funzionale – mettendone a fuoco una nuova forma e una nuova identità.

Questo, in sintesi, è il tema progettuale che ha visto coinvolti, nell’anno a accademico 2014/2015 gli studenti del corso di Architettura e composizione architettonica 3 da me diretto presso l’Università degli Studi di Salerno, indirizzato agli studenti del terzo anno del corso di laurea in Ingegneria edile-Architettura, ed i cui risultati verranno presentati all’Università degli Studi di Salerno il 22 ottobre 2015 nel corso di un convegno presso l’Aula Nicola Cilento, con inizio alle 10,45 e, a seguire, nella mostra che verrà inaugurata lo stesso giorno alle 13,00 nell’atrio della facoltà di Ingegneria.

Il corso ha visto, nel suo svolgimento, il contributo di diversi specialisti esperti delle diverse fedi, fra cui Gennaro Matino, liturgista e teologo della pontificia facoltà di Teologia di Napoli, Massimo AbdAllah Cozzolino, storico e appartenente alla Confederazione islamica italiana, Gianenrico Abd al-Sabur Turrini e Gabriele Muhyiddin Bottiglioni della Coreis, Comunità religiosa islamica italiana, Sergio Amedeo Terracina, architetto della Comunità ebraica di Roma, nonché di architetti e docenti di architettura italiani, quali Valeria Pezza, Renato Capozzi e Camillo Orfeo dell’Università di Napoli Federico II, Marco Petreschi dell’Università di Roma La Sapienza, Pasquale Belfiore della Seconda Università di Napoli, Pasquale Persico ed Enrico Sicignano dell’Università degli Studi di Salerno, Carolina Cigala (PhD presso l’Iuav di Venezia) e Pierpaolo Gallucci (PhD presso il Politecnico di Milano).

Le diverse angolazioni con cui è stato considerata la forma appropriata per un luogo di preghiera così concepito è stata anche l’opportunità per gli studenti di coniugare l’attenzione per le questioni specificamente tecniche del progetto con quella per gli aspetti spirituali, così importanti per la vita di ciascuno di noi; in un certo senso l’obiettivo formativo ed esperienziale del corso è stato proprio lo sforzo di superare la sciocca distinzione tra sapere tecnologico-scientifico e sapere umanistico che troppo spesso genera specialisti incapaci di confrontarsi con la complessità del reale.

Non è casuale che da tempo anche prestigiosi istituti scientifici – tradizionalmente all’avanguardia negli studi di ingegneria – come l’Olin College di Needham, a breve distanza da Boston, o lo stesso leggendario Mit, stiano sviluppando forme di didattica in cui la lezione tradizionale è sostituita da progetti, spesso con aziende, e si studiano anche arte e scienze sociali, come ha evidenziato Abravanel Roger, editorialista ed esperto di meritocrazia e formazione sul Corriere della Sera del 10 ottobre scorso.

Nel nostro caso, quello che per gli studenti è stato solo un progetto architettonico potrebbe diventare, nella realtà, un esperimento sociale, un tentativo di pacifica convivenza e accettazione delle diversità, un atto di fede e di amore, un’apertura verso il mondo e soprattutto un simbolo di pace. Potrebbe diventare anche uno sforzo di reciproca comprensione tra culture; comprensione e non tolleranza, termine che implica invece una gerarchia di valore tra le diversità delle quali vorrebbe promuovere la comprensione.

*Professore associato di composizione architettonica e urbana

Dipartimento di Ingegneria Civile - Università degli Studi di Salerno

 

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