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    22/07/2024

Nardiello, l'ultimo brigante irpino

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Il carcere borbonico di Avellino da cui riuscì ad evadere NardielloNella tradizione iconografica irpina il lupo ed il brigante sono due elementi caratterizzanti e sempre presenti. Dal primo deriva il nome stesso della tribù sannitica che viveva in un’area quasi interamente coincidente con l’attuale territorio della provincia; il secondo ha ispirato storie e leggende a cavallo tra Settecento ed Ottocento. L’uno e l’altro evocano paure ataviche, ma anche suggestioni di miti romantici, spesso basati sui ricordi nostalgici dei bei tempi che furono. In realtà, i briganti furono lupi, nel senso che, a prescindere dalle risibili ricostruzioni fatte da una pubblicistica superficiale ed inaffidabile, i briganti (e, soprattutto, i loro capi) furono per lo più criminali, guidati da motivazioni assai poco nobili, e – in generale – affini alla delinquenza comune più che a quella politica. In questo senso il fenomeno brigantaggio, pressoché esauritosi in Irpinia dopo il 1865, conobbe una riviviscenza novecentesca grazie alle gesta dell’ultimo brigante irpino, Vito Nardiello da Volturara Irpina. E proprio a quest’ultimo è dedicata un’interessante monografia di Giuseppe Alessandri, “Latitante a domicilio – La storia di Vito Nardiello, il lupo d’Irpinia”, edita dalla Casa Editrice Il Terebinto.

Come alcuni capi delle bande dei briganti del XIX secolo (Carmine Crocco su tutti), Nardiello intraprese la carriera di fuorilegge dopo aver vissuto l’esperienza devastante della guerra. Il volturarese prese parte alla seconda guerra mondiale, dapprima nelle file dell’esercito italiano, e, poi, nelle bande dei partigiani titini nella ex Jugoslavia. Promosso capo sul campo, fu protagonista di vari eccidi, talvolta ai danni di altri italiani, rei di essere considerati un pericolo per l’establishment comunista. Come altri briganti, Nardiello non riuscì a spogliarsi del suo nuovo ruolo e, tornato a casa, continuò la sua guerra personale, stavolta contro i suoi concittadini e, più in generale, contro i malcapitati che, per raggiungere l’Alta Irpinia da Avellino e viceversa, erano costretti ad attraversare il Malepasso.

Nacque così il mito dell’inafferabile bandito che prima si dedicò a rubare nelle masserie e case coloniche della Piana del Dragone e, poi, a rapinare i viaggiatori lungo i tornanti del passo. La sua fu una carriera costellata da episodi sanguinosi, essendosi reso autore di alcuni omicidi, anche ai danni di appartenenti alle forze dell’ordine. Arrestato una prima volta, riuscì ad evadere dal carcere di Avellino e a darsi ad una lunga latitanza, godendo della connivenza di un’intera frazione (quella di Tavernole, dove era nato e cresciuto, e dove morì nel 2001) e di una larga parte della gente di Volturara Irpina, intimorita dalle sue minacce.

Quella di Nardiello, quindi, fu una latitanza del tutto singolare. Intrattenne una relazione stabile con una donna, Rosa Raimo, che gli diede vari figli, concepiti e nati anche negli anni in cui il brigante si sottraeva sistematicamente alle forze dell’ordine. Girava indisturbato per tutta la provincia e persino per Avellino, anche grazie ad una identità falsa comprovata da un documento di riconoscimento falso. In definitiva, si faceva beffe degli inquirenti e delle forze di polizia, quasi vantandosi della sua impunità e della sua abilità a sfuggire ai tentativi di cattura che periodicamente venivano effettuate dai carabinieri della stazione locale, che per varie ragioni erano palesemente impreparati ad affrontare un nemico così tutelato da quella frazione Tavernole dove tutti gli abitanti erano parenti suoi o degli altri componenti della sua banda. Finalmente fu arrestato nel 1963, quando le forze dell’ordine lo scovarono nella sua abitazione dove dormiva in compagnia di uno dei suoi figli. La parabola del brigante si esaurì con la sua seconda cattura. Dopo la lunga carcerazione fece ritorno a Volturara dove visse fino alla sua morte avvenuta nel 2001: altro secolo, altri tempi, in cui i briganti erano già definitivamente scomparsi dalle terre irpine.

Sembra una storia banale, ma non lo è affatto. La sintesi della vita di Nardiello non rende giustizia alle mille sfaccettature delle vicende del brigante ed ai mille quesiti che il libro di Alessandri propone ai lettori. Resta irrisolto, ad esempio, l’enigma dell’indole di Nardiello: la sua scelta di delinquere fu determinata dal contesto ambientale e dall’indigenza? O, piuttosto, da una tendenza a delinquere che gli era familiare? O, infine, ritornato dalla guerra, non seppe (o non volle) adeguarsi al tempo di pace? L’autore non dà una risposta esplicita. Tuttavia, tra le righe del saggio sembra emergere una propensione delinquenziale specifica del bandito, che prescinde da motivazioni, che, sia pure impropriamente, potrebbero essere definite “nobili”.

La sua stessa esperienza nelle truppe irregolari titine non prese le mosse da una scelta politica, né Nardiello in seguito diede mostra di avere una coscienza politica. Il brigante di Volturara, non era un nuovo Robin Hood, né agiva per ragioni in qualche modo connesse alle problematiche ed alle criticità del suo territorio. La sua, insomma, fu una pura e semplice indole delinquenziale, che trovava un unico parziale temperamento negli affetti familiari, a partire da quello nutrito nei confronti di Rosa Raimo. Per suo amore affrontò gravi rischi: ricoverata in una clinica ad Avellino, Rosa ricevette la visita del latitante Nardiello, incurante del rischio di essere catturato.

Proprio sulla latitanza del brigante si concentrano gli interrogativi più significativi posti da Alessandri, che – non a caso – alla sua monografia dà il titolo di “Latitante a domicilio”. Come riuscì il brigante a sottrarsi alla cattura per più di un decennio, senza mai allontanarsi da Volturara per lunghi periodi? Come riuscì ad evadere dal carcere di Avellino? Perché i blitz delle forze dell’ordine fallivano sistematicamente? Il libro fornisce alcune risposte. Le caratteristiche del territorio, ad esempio, che certamente favorivano la latitanza. I boschi e gli anfratti del massiccio del Terminio costituivano la tana naturale del “lupo” Nardiello. E, ancora, la complicità dei familiari e degli amici della frazione Tavernole, che garantivano un servizio di ospitalità e sorveglianza che rendeva vano qualsiasi tentativo di stanare il brigante nella sua stessa casa. Anche gli altri volturaresi, soggiogati dalla paura, erano costretti a soddisfare le esigenze del brigante, che per lunghi periodi abbandonava Tavernole per soggiornare in un’abitazione nel centro del paese.

Probabilmente, però, furono proprio l’incapacità ed i limiti delle forze dell’ordine a favorire la latitanza di Nardiello. Forse è questo uno dei punti nodali della vicenda su cui l’autore si sofferma più a lungo per dimostrare – fonti alla mano – che non si trattò di inettitudine dei singoli militari che dovettero fronteggiare il brigante, ma – piuttosto – della cronica e stupefacente incapacità organizzativa palesata dai comandi delle forze dell’ordine e dalla burocrazia prefettizia e ministeriale.

Per lunghi periodi la caccia a Nardiello fu affidata ai pochi carabinieri della stazione di Volturara, privi delle risorse più elementari (finanche dei mezzi di locomozione) per affrontare un nemico così temibile e radicato sul territorio. In molti casi le diverse autorità non si scambiarono informazioni utili per la cattura del latitante, accreditando la sua presenza all’estero o in altre regioni. Non è un caso che quando finalmente un team capace fu assegnato alle indagini, il brigante fu catturato nel giro di pochi mesi e senza spargimento di sangue. Resta, peraltro, una domanda che resta senza risposta: cosa fece il potere politico per assicurare Nardiello alla giustizia? In realtà, si limitò a deliberare una taglia sul brigante, astenendosi – per il resto – da qualsiasi ulteriore intervento deciso ed efficace.

Al di là degli interrogativi proposti e delle risposte date, “Latitante a domicilio” stimola una lettura appassionante ed approfondita. Pur richiamando riferimenti storici e documentali assolutamente esaustivi e rigorosi, il saggio di Alessandri, che recupera un importante spaccato della storia irpina del Novecento, è chiaro e coinvolgente. Anzi, completata la lettura, il lettore avverte quasi il rammarico di separarsi dal racconto appassionato ed appassionante delle storie e delle vicende dell’Irpinia che fu.

 

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