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    03/07/2024

Il mistero di Castel Baronia nell’Irpinia dell’Ottocento

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Castel Baronia. la chiesa di San FrancescoQuando la cronaca racconta fatti di sangue che danno l’idea del venir meno di ogni istinto umano e perfino animale, l’impulso più immediato soccorre con due sensazioni: che quei medesimi fatti appartengono per fortuna ad una realtà lontana, come per assaporare una senso di salvezza;  che sono il segno dei tempi, quasi sempre vissuti con il convincimento che abbiano l’impronta della decadenza, del venir meno di quelle norme elementari a cui si associa l’essenza stessa della natura umana.

Ciò tuttavia finché non capita di imbattersi in storie che fanno cadere l’uno e l’altro convincimento, in accadimenti sprofondati nell’oblio più profondo che riemergono casualmente per cui tocca prendere atto che il mondo è stato sempre uguale, oggi come ieri, lontano come vicino.

La notte del 25 giugno del 1870, a Castelbaronia, un paese di gente tranquilla e operosa, un padre sventurato massacrò nella propria casa cinque figli, la moglie incinta di cinque mesi e poi se stesso. Un agghiacciante episodio di sangue, consumato nell’intimità della famiglia; un episodio di inaudita misura che per tanti aspetti è sicuramente una delle maggiori, se non la maggiore in assoluto, tragedia familiare dell’Irpinia, davanti alla quale, sia pure quasi centocinquanta anni dopo, si fa fatica a non rivivere l’orrore e lo sgomento.

A ricordarlo c’è ancora una lapide, conservata a Castelbaronia nella Chiesa di San Francesco, ormai dimenticata, il cui testo è stato di recente riproposto, con quasi nessuna altra notizia, in un volume di storia locale (Umberto Primavera, Per la storia di Castelbaronia, Siena 2007). Il mistero che evocano le scarse notizie del testo, le poche parole della lapide, nonché l’oblio profondo nel quale è stato cacciato l’accadimento, non possono non alimentare un desiderio di saperne di più, lo stesso che manifestò il cronista contemporaneo all’evento  sulla Gazzetta del Popolo del 16 luglio 1870: “Tutto si dimentica sulla terra, il male più presto del bene, i grandi come i piccoli avvenimenti; la voragine del tempo non ci lascia pensare ai dolori del passato perché fissa sempre la nostra mente non altrimenti dell’ago calamitato verso un punto solo, l’avvenire. Tuttavia in chi riflette sulle vicende dell’umanità e si applica a studiare la natura dell’uomo, gli atroci casi non possono che lasciare profonde impressioni; allora l’investigazione delle cause che li crearono diviene una necessità; allora il desiderio di esaminare i fenomeni che li accompagnarono si fa prepotente….”.

Parole e sentimenti in grado evidentemente di sopravvivere ai secoli perché un accadimento del genere non assume mai l’asettico aspetto di un fatto di storia, sia pure cruento, davanti al quale si può anche rimanere imperturbabili, ma conserva la capacità di generare sentimenti vivissimi. Così, una piccola ricerca sui giornali del tempo lo ha fatto riemergere in tutta la sua tragicità.  Articoli furono pubblicati, in particolare, su L’eco irpina e, come detto, sulla Gazzetta del Popolo di Avellino.

Nel primo periodico si ritrova solo un cenno, non essendo conservato il numero o i numeri su cui il fatto fu trattato in via principale, mentre due numeri della Gazzetta del Popolo, conservati, recano altrettanti articoli per una cronaca molto stringata e discreta, assai diversa dagli eccessi di quella odierna. Il primo dei due articoli, pubblicato il 12 luglio del 1870, così riportò il tragico avvenimento: “L’avvocato Giuseppe Errigo [Errico  n.d.r], di anni 40, trovato cadavere colla sola camicia addosso tenendo impugnato nella mano destra un revolver a sei colpi, scarico. Al suo fianco giaceva pure cadavere la moglie Donna Filomena Baccarino [Piccarini, cfr.  Umberto Primavera, op. cit.,  ndr ] d’anni 35.  In altro letto giacevano esanimi la figlia Grazia di anni 12 e Federico di anni 4, nonché la bambina lattante di circa un anno a nome Maria. Nella stanza attigua e nel rispettivo letto si vedevano del pari estinti  due altri figli per nome Michelangelo di anni 8 e Amelio di anni  6”.

L’autopsia, inoltre, effettuata dai dottori Nicola Cataldi di Castelbaronia e Nicola Orlandella di San Sossio Baronia, evidenziò che la moglie recava in grembo un feto di sesso maschile di cinque mesi.  Un fatto mostruoso, dunque, come lo defini “L’eco irpina”, che rende faticoso fare la tragica contabilità dei morti; che, oltre alla pietà, procura un inusuale senso di raccapriccio e di angoscioso allarme poiché  adombra la primitiva funzione della famiglia, vulnera il porto più sicuro, il rifugio più caro, sottraendogli quella forza di rassicurare e proteggere che quieta la paura istintiva degli uomini.

Unico testimone del fatto fu la domestica, tale Marianna Cipriano, probabilmente giovanissima, risparmiata dalla furia omicida, la quale interrogata sull’avvenimento riferì che “nella notte non intese altro che il ragazzo Amelio, il quale in seguito a sordo e cupo rumore diceva “papà vieni a coprirmi che mi fa male” quando il padre esplose un altro colpo che lo rese cadavere”.

Quali poterono essere la cause che spinsero un professionista e un padre esemplare a compiere un gesto di così inusitata violenza? Provò a spiegarlo la Gazzetta del Popolo del 16 luglio del 1870: “È perciò che noi abbiamo cercato altri elementi del sanguinoso e deplorevole caso di Castelbaronia; noi da cronisti li ripetiamo al pubblico come ci vennero riportati da un corrispondente di colà. Egli ci scrive: che l’Errigo  prima di uccidersi esplose parecchie volte il revolver contro il suo cappello per assicurarsi che i colpi non avrebbero fallito; che otturò i buchi della serratura con carta e stracci affine di impedire che al di fuori si sentisse qualche rumore. Sulle cause che originarono quell’orribile e luttuoso avvenimento narra la cronaca del paese: che da qualche tempo l’Errigo aveva spiegato tendenze al suicidio; che nel giorno precedente la tragedia si era recato da vari amici per cambiare in carta ed in argento una somma di eroso ch’egli doveva pagare all’esattore e non voleva consegnargli in bronzo; che non avendo potuto ottenere questo cambio si lagnò di non avere più amici, nessuno volendo fargli il più piccolo favore; che tuttavia si recò colla famiglia in campagna dove stette in allegria tutta la giornata. Non si sa tuttavia conciliare questo caso colla immensa e veramente straordinaria affezione che l’Errigo nutriva per i figli con ogni cura ed amorevolezza cresciuti ed educati. Ognuno ammette pertanto che in quel momento una strana e furiosa mania lo avesse pervaso”.

Fu un dèmone terribile dunque a impadronirsi di questo disgraziato padre spingendolo non solo a concepire un disegno tanto folle quanto tragico, ma anche a gestirlo ed attuarlo con lucida razionalità, un disegno davanti al quale, in assenza degli strumenti adeguati, si arresta qualsiasi tentativo di capire oltre.

 

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