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    22/07/2024

Storie di emigrazione nel libro di Olga De Gregorio

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura6_copertina.jpgCARIFE – L’emigrazione come non era stata mai raccontata. È questo il leit-motiv dell’ultimo libro di Olga De Gregorio, “Gli occhi di Espedito”, recentemente pubblicato per i tipi della Casa Editrice Delta3. L’opera si compone, in realtà, di due racconti (il primo dà il titolo al libro, il secondo è “Donne migranti”), che narrano due storie “insolite”, perché non rientrano nel solco dell’epica tradizionale dell’emigrazione italiana del Novecento. I protagonisti e le vicende che li coinvolgono si differenziano (e molto) l’uno dall’altro.

Il primo racconto ruota intorno ad un bambino, Espedito, che dalle “terre dell’osso” si trova catapultato nella pampa argentina. Quella che lascia è una terra avara e nemica, che poche prospettive promette per il futuro, quella a cui approda è una terra per certi versi inospitale, ma con un orizzonte vasto che rivela una nuova vita e nuove occasioni. Sembra proprio una storia comune quella di Espedito: la storia di milioni di emigranti italiani, che per sopravvivere hanno barattato la miseria per la nostalgia. E, tuttavia, a differenza di tanti emigranti, Espedito sceglie di non tornare nel proprio paese di origine, benché ne coltivi costantemente il ricordo. La sua scelta è più radicale. È la scelta di chi trasmette il suo sogno (il ritorno) al nipote Juan Pablo (nato e cresciuto in Argentina), che con i suoi occhi accompagnerà il nonno in questa sorta di viaggio metafisico alla riscoperta delle sue radici. Gli occhi del nipote sono quelli di Espedito, che morirà subito dopo che gli occhi del nipote avranno visto (o, meglio, “rivisto”) i vicoli e le case del suo paese. Ma quella di Espedito non è una storia di disperazione. Non rimpiange di aver lasciato la sua terra, probabilmente non sarebbe più capace di immaginare la sua vita se non in Argentina, dove ha costruito la sua famiglia. Il ricordo malinconico si risolve solo nella nostalgia dell’infanzia.

Completamente diversa è la storia della protagonista del secondo racconto, “Donne migranti”. Rosa è un’emigrante sui generis. Non fugge dalla miseria. Non fugge con i suoi cari. Scappa da sola, quasi in incognito, lasciandosi dietro marito e figlie, con la complicità solo dei suoi genitori, unici a comprenderla fino in fondo e a capire che la figlia è ad un bivio: fuga o morte.

Dalla prigione alla libertà: è questo il viaggio che Rosa intraprende a bordo di una delle tante navi che fino agli anni Settanta del secolo scorso periodicamente “scaricavano” gli emigranti italiani in America. Ma è una libertà “vigilata” quella che conquista. Continuo e malevolo è il controllo dei suoi parenti americani, che mal sopportano la presenza dell’intrusa, tanto che Rosa deve scappare ancora, sistemarsi altrove per raggiungere – una volta per tutte – l’indipendenza e l’autosufficienza.

Siamo negli anni Sessanta: l’America sta cambiando, e la giovane emigrante italiana sta cambiando con lei. Poco alla volta sta realizzando il suo “sogno americano”. Ma il passato incombe e si confonde con il presente di tre figlie, che, ormai giovani, esigono il suo ritorno. Il suo è un risveglio brusco: gli emigranti piangono quando partono; Rosa piange quando torna. La sua fuga è finita, la sua gioia di vivere è scomparsa: ai suoi cari non perdonerà di averla costretta a scegliere; a sé stessa non perdonerà mai di aver fatto la scelta sbagliata.

 

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