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    22/07/2024

Alle origini della questione meridionale, a Morra De Sanctis la presentazione del libro di Saggese

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura6_quest_merid.jpgAVELLINO – Prima presentazione per la nuova pubblicazione di Paolo Saggese, Alle origini della questione meridionale. Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Guido Dorso e il magistero di Francesco De Sanctis (Terebinto Edizioni, pp. 144, 15 euro, già disponibile in libreria e in edicola).

In questo nuovo libro – si legge in una nota – l’intellettuale militante e critico letterario Paolo Saggese cerca di andare alle “origini” del dibattito sulla questione meridionale, scegliendo come centro dell’indagine il “magistero” intellettuale, politico e morale di Francesco De Sanctis, “maestro” dei “maestri” del meridionalismo.

La presentazione si terrà a Morra De Sanctis martedì 18 agosto, alle ore 18:00, a Palazzo Molinari. Nel corso dell’evento, moderato da Elisa Forte di “Nuova Irpinia”, interverranno Vincenzo Di Sabato (sindaco di Morra De Sanctis), Rosa D’Amelio (presidente del Consiglio regionale della Campania), Pier Ernesto Irmici (pubblicista e analista politico), Francesco Barra (già ordinario di Storia moderna) e Enrico Indelli (vice sindaco di Morra De Sanctis). Sarà presente l’autore.

Per l’occasione dell’uscita del libro, la casa editrice di Ettore Barra ha inoltre deciso di lanciare una promozione estiva che consentirà l’acquisto di tutti i titoli del catalogo senza spese di spedizione e con un volume omaggio. La promozione sarà valida per tutto il mese di agosto. Per ulteriori informazioni sulla presentazione, è possibile seguire l’evento su Facebook.

Pubblichiamo, qui di seguito, la prefezione del professor Francesco Barra, già ordinario di Storia moderna all'Università di Salerno.

*  *  *

Con questo bel volume, agile e scorrevole ma denso e profondo, Paolo Saggese approfondisce, con sagace analisi critica, il rapporto, sin qui non indagato, tra Francesco De Sanctis, le origini della “Questione meridionale” e i primi meridionalisti. Al centro della riflessione di Saggese sta, essenzialmente, il rapporto tra De Sanctis e Dorso. Rapporto chiaramente ideale, dato il “salto” temporale di almeno due generazioni tra i due pensatori, ma anche problematico, nel senso che, come l’Autore documenta anche filologicamente, Dorso non fa mai riferimento esplicito a De Sanctis come pensatore politico e tantomeno come “meridionalista”. Saggese spiega e argomenta con grande finezza critica questa apparente discrasia, risolvendola nell’innegabile filiazione politico-culturale, diretta e indiretta, tra i due, nel senso che l’insegnamento etico-culturale di De Sanctis, dal quale derivava direttamente la concreta operosità dei primi due grandi meridionalisti “classici” – Pasquale Villari e Giustino Fortunato –, entrambi suoi allievi e discepoli, sta per così dire a monte del pensiero meridionalista.

Ed è, questa, una conclusione sicuramente accettabile e condivisibile (che Saggese riassume brillantemente nella formula «De Sanctis “maestro” dei “maestri” del meridionalismo»), che però non risolve del tutto il problema. La questione è infatti, a mio avviso, più generale e complessa, e riguarda da un lato gli esiti del Risorgimento italiano e dall’altro il concetto specifico di meridionalismo. In quanto al primo aspetto, va sottolineato come gli uomini “che fecero l’Italia” – e tra essi De Sanctis – credessero fermamente nei grandi ideali liberali e costituzionali del loro tempo. Ma la realtà avrebbe presto dimostrato che l’ideologia illuministico-liberale, e in particolare i postulati del regime rappresentativo, applicati al secolare e complesso meccanismo dello Stato moderno, assumevano ruoli e producevano effetti profondamente diversi, a seconda se si trattasse di comunità politiche rese omogenee dalla lunga convivenza storica e dalla prolungata ed efficace azione livellatrice dei governi assolutistici, oppure da comunità eterogenee, tenute insieme solo dal potere della forza, coniugata a quella della monarchia tradizionale, com’era appunto il Mezzogiorno. Il nuovo Stato ricevette quindi un ordinamento che non era né decisamente autoritario né apertamente liberale. La ristrettissima base elettorale, fortemente censitaria ed elitaria, del regime parlamentare avrebbe da allora costituito l’indispensabile condizione di sussistenza del regime liberale.

D’altro canto, le tormentate vicende dell’unificazione fecero sì che, da Cavour in poi, la politica italiana si fondasse sull’intervento nel Mezzogiorno con tutta la forza dello Stato. E fu la guerra del brigantaggio, con le sue migliaia di vittime, l’impiego di ingenti forze repressive, impegnate in una lunga e feroce guerra di guerriglia, gli stati d’assedio ed i procedimenti arbitrari. Era in effetti nata la Questione meridionale, di cui la guerra del brigantaggio costituì il primo e più tragico, ma non unico, disvelamento.

Quest’intima e profonda contraddizione conosciuta dalla fase decisiva del processo unitario fu acutamente colta dagli spiriti più autenticamente liberali, che formularono già allora e posero con grande acutezza delle questioni e delle domande, destinate però a rimanere sostanzialmente senza risposte, nonostante il trascorrere del tempo, il mutare dei regimi politici, il cambiamento dei sistemi produttivi e delle strutture sociali. Tra i primi, ed anzi i primissimi, fu appunto Pasquale Villari, brillante allievo dal 1845 al 1848 della scuola privata di Francesco De Sanctis.

Anche su Villari Saggese ha delle belle ed acute pagine, che sottolineano efficacemente i profondi rapporti, culturali e umani, che legarono l’allievo al maestro. Non si può condividere, per altro, la minimizzazione delle cause e degli effetti dell’allontanamento del percorso intellettuale di Villari dagli ambienti hegeliani di Napoli, che ne deplorarono con virulenza l’«antihegelismo» e l’apertura al positivismo. Ed è in questo senso significativa la vera e propria damnatio memoriae effettuata, in vita e in morte, dell’opera del Villari da parte dell’idealismo italiano, da Imbriani e Spaventa sino alle vere e proprie stroncature e impietose demolizioni di Giovanni Gentile, che dedicò a Villari piagnone un capitolo del suo volume su Capponi, e di Luigi Russo, per non parlare di quelle – ancora più feroci – di Prezzolini e di Papini.

La rottura col De Sanctis, avviatasi nel 1863, culminò nel 1865, quando il completo distacco di Villari dal maestro si consumò con la sua adesione al positivismo. La sua prolusione La filosofia positiva e il metodo storico è anzi considerata il manifesto programmatico del nascente positivismo italiano. Una rottura poi sanatasi negli anni seguenti, fino a che, non a caso, fu proprio Villari a curare, per incarico della vedova, la stampa postuma dell’incom­piuta autobiografia desanctisiana, alla quale dette il titolo La Giovinezza, in luogo di quello dato dall’autore: Ricordi. In realtà Villari, pur con tutta la sua indipendenza di carattere, congenitamente ribelle a tutte le scuole e a tutte le “sette”, accademiche o meno, era rimasto nell’inti­mo un desanctisiano, e nella forma migliore, come ben ricorda e sottolinea Saggese.

Insistere su questa diversificazione del percorso culturale dei due intellettuali, dovuta a tutt’altro che banali e occasionali motivazioni, è in effetti paradigmatica del fatto che essa condusse Villari, proprio per effetto della rottura con l’hegelismo, a divenire il fondatore del meridionalismo “classico”. Non s’insisterà mai abbastanza, infatti, che in realtà il meridionalismo nasce con il positivismo, e che anzi senza di esso non si dà meridionalismo. Furono appunto la tragedia del brigantaggio, l’esito infelice della guerra del 1866 e ancor più la Comune di Parigi del 1871, con il drammatico emergere in Europa della questione sociale, a indurre Villari, com’egli scriveva nel 1865, all’«ap­pli­cazione del metodo storico alle scienze morali, dando ad esso l’importanza medesima, che ha il metodo sperimentale nelle scienze naturali. Il positivismo è quindi un nuovo metodo, non già un nuovo sistema». Ciò lo condusse ad approfondire le proprie riflessioni sulla natura e sui limiti, spirituali e civili prima ancora che materiali, della “Nuova Italia” postrisorgimentale, con particolare riguardo alla questione di Napoli e del Mezzogiorno. Tematiche a cui De Sanctis si avvicinò gradualmente, ma mai completamente e organicamente, nel corso del primo ventennio della vita unitaria, parallelamente alla sua crescente attenzione, a livello intellettuale, al realismo e al naturalismo, che lo portò, di fatto, al progressivo allontanamento dall’idea­lismo hegeliano.

In effetti, idealismo e meridionalismo non sono né identificabili né sovrapponibili, per cui neppure Benedetto Croce, “padre” del neoidealismo italiano del Novecento, può essere considerato un meridionalista, pure essendo stato il maggiore intellettuale meridionale e italiano del XX secolo e pur avendo offerto uno straordinario contributo alla conoscenza della storia e della cultura del Mezzogiorno. Spiegarne il perché risulterebbe assai complesso, ma basterà qui ricordare che la conseguenza principale dell’hegelismo era stata l’enfatizzazione del ruolo creativo della mente umana, al punto che il modo con cui l’intelletto percepiva la realtà effettuale costituiva in sé un attributo essenziale di quella stessa realtà. Messo da parte l’empirismo, si promosse così la mente umana a suprema forza creatrice. Allo stesso tempo, l’idealismo infuse nella filosofia, e quindi nella politica, un elemento dinamico, concependo l’intero cosmo come in continua evoluzione, teso a raggiungere dialetticamente un ideale libero e razionale. Non a caso, l’elemento “storicista” è divenuto da allora un elemento indispensabile di ogni “ideologia”. L’effetto concreto fu di ispirare negli intellettuali una straordinaria fiducia in se stessi e nelle proprie idee che essi non avevano mai posseduto prima, facendo passare in second’ordine, in rapporto a questa visione, strutture, governi, economie e stati. L’idealismo divenne così la filosofia assoluta del Risorgimento, accanto­nando l’empi­rismo razionalista di Cattaneo (altro padre nobile del positivismo italiano), e la sua influenza persistette anche successivamente, quando fu ripresa da Croce e Gentile, anche dopo che i suoi presupposti e principi fondamentali erano stati ripudiati e sostituiti dal materialismo marxista.

Queste pur sommarie considerazioni contribuiscono a far comprendere come De Sanctis, uomo del Risorgimento ed esponente di punta della cultura hegeliana (sia pur ben lontano dalle estremizzazioni di Spaventa e di De Meis), dovesse vivere e soffrire in prima persona gli esiti concreti del processo di unificazione nazionale, con riferimento specifico alla realtà del Mezzogiorno, senza però poterne risolvere sino in fondo le contraddizioni, proprio per i limiti intrinseci dell’idealismo. In questa luce si comprende come Dorso, a parte ogni altra considerazione contingente, non lo considerasse, né potesse considerarlo, un padre del meridionalismo, che anche generazionalmente nasce con la generazione successiva a quella del grande morrese, con Villari e i più “giovani” Franchetti, Sonnino e Fortunato, sui quali per altro, e soprattutto su Villari e Fortunato, il magistero etico-politico desanctisiano esercitò un’in­fluenza diretta e decisiva.

In conclusione, il volume di Paolo Saggese, ricco com’è di felici spunti e suggestioni, si pone con originalità e forza nella scia dello studio del pensiero meridionalista al quale offre un contributo nuovo e notevole di discussioni e di riflessioni.

*già professore ordinario di Storia moderna dell’Università di Salerno

 

 

 

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