AVELLINO – Da pochi giorni sono stati pubblicati in edizione anastatica dall’editore D’Amato i Raguagli della Città d’Avellino (1666) di fra Scipione Bella Bona, “padre” della storiografia avellinese. L’opera è introdotta da un ampio saggio del prof. Francesco Barra che, per la prima volta, sulla base di una vasta documentazione inedita, ricostruisce criticamente la biografia dello storico avellinese, corredata pure da una tavola genealogica curata da Armando Montefusco, apportando così un importante contributo alla storia di Avellino nell’età moderna. Dell’introduzione del prof. Barra offriamo qui una breve sintesi.
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Dei Bella Bona, nei suoi Raguagli, fra Scipione tracciò una fantasiosa genealogia, a cominciare dal capostipite Luigi de Sus, venuto dall’Armagnac al seguito di Carlo d’Angiò e poi vicario di Simone di Monfort, conte d’Avellino. L’originario cognome de Sus sarebbe stato successivamente cambiato in Bella Bona per sottolineare le virtù guerriere dei membri della famiglia. Questa fantasiosa discendenza è stata sinora acriticamente recepita dalla storiografia (che denuncia peraltro un vuoto completo a proposito della reale biografia dello stesso Bella Bona, a cominciare dalle date di nascita e di morte), mentre i documenti, in realtà, ci narrano tutt’altra storia. I Bella Bona erano infatti ebrei avellinesi, che tradussero e latinizzarono il proprio cognome originario di Jaffe ben-Tow (Bello/a figlio/a di Bonaventura) in conseguenza della cristianizzazione forzata operata da Carlo II d’Angiò nel 1294.
La condizione economico-sociale della famiglia, caratterizzata da una spiccata vocazione imprenditoriale e dall’esercizio dell’arte medica, si mantenne eccellente sino ai primi decenni del XVII secolo, quando le speculazioni sbagliate di Giovan Battista Bella Bona, padre di fra Scipione (battezzato col nome di Marino Marco il 2 aprile 1602) e la crisi economica del tempo ridussero in rovina la famiglia, portando nel 1628 lo stesso Giovan Battista in prigione per inadempienze contrattuali nella gestione dei mulini feudali dei Caracciolo.
Rimasto giovanissimo orfano della madre Giulia Catalano, l’intellettualmente assai promettente Marino Marco si avviò ben presto allo stato ecclesiastico, facendo professione religiosa col nome di Scipione tra i minori Conventuali dell’antico e prestigioso convento di S. Francesco d’Avellino, di cui fu più volte padre guardiano, a partire dal 1634; lo sarà anche dal luglio 1647, in contemporanea coll’esplosione della rivolta di Masaniello. Pur avendo conseguito il baccellierato, non proseguì gli studi fino al conseguimento della laurea. Probabilmente, in questa scelta, fu condizionato dal tracollo finanziario del padre. Fra i diversi creditori di questi vi era lo stesso convento avellinese, a cui doveva 100 ducati, assegnati a fra Scipione dalla madre Giulia Catalano. Nel febbraio del 1628 i frati raggiunsero una transazione bonaria, accontentandosi di soli 50 ducati.
Nel 1642 iniziò a Napoli, per i tipi di Camillo Cavallo, la stampa dei Raguagli della città di Avellino. Si trattava di un grosso volume di 513 pagine, contenente la ricostruzione organica e complessiva della storia della città, dall’antichità più remota all’età contemporanea. La prima parte dell’opera era costituita dall’Avellino sacra, dedicata alla parte agiografica, mentre i Raguagli veri e propri formavano la seconda.
Nonostante si trattasse di un’opera d’indubbio respiro, riccamente documentata e di notevole valore, che si avvaleva del parere di un autorevole censore laico quale lo storico napoletano Francesco de Petris, essa fu immediatamente oggetto di una furibonda persecuzione. Denunciata al Generale dei Conventuali, al Padre provinciale e all’arcivescovo di Napoli Filomarino dall’università di Atripalda, dal marchese della Bella, tutore del principe Caracciolo, e soprattutto dalla Congregazione Verginiana, il volume, la cui stampa, sostenuta con un finanziamento di 50 ducati da parte dell’università di Avellino, era stata completata nelle prime settimane del 1644, fu condannato ad essere bruciato il giorno dei SS. Pietro e Paolo in quanto, come recita la sentenza, «pernicioso al Monastero di Monte Vergine, alli santi di essa Congregazione et contra bonos mores et causa di rumori fra Avellino e la Tripalda». Per oltre due secoli si ritenne che l’opera fosse andata del tutto perduta. La sola copia superstite, che reca ancora le tracce del fuoco, passò invece nella Biblioteca dei Vargas Macciucca, venendo acquistata a fine ’800 dal bibliografo irpino Scipione Capone, la cui vedova, Adele Solimene la donò nel 1917 alla biblioteca provinciale “Capone” di Avellino, da essa stessa fondata, e dove tuttora si conserva.
Le motivazioni della persecuzione affondavano le proprie radici nelle tematiche stesse della trattazione del Bella Bona. Questi, infatti, nel ricostruire la storia di Avellino, l’aveva per così dire “giocata” su due diversi registri, essenzialmente agiografici, ma con pesanti ripercussioni storiche e pratiche. Il primo era costituito dalla rivendicazione di S. Sabino come vescovo di Abellinum e non di Canosa, come volevano gli atripaldesi, da cui scaturiva la soggezione canonica della chiesa di Atripalda al Capitolo cattedrale di Avellino, come era in effetti avvenuto sino al 1585. L’altra questione, che infiammava non soltanto gli animi ma anche i tribunali ecclesiastici, era quella riguardante la giurisdizione dell’abbazia “Nullius” di Montevergine sulle terre di Ospedaletto, Valle e Mercogliano, anticamente appartenenti alla diocesi di Avellino. Il battagliero vescovo Bartolomeo Giustiniani aveva nel decennio precedente rilanciato la vertenza, ricorrendo a Roma, e suo consulente storico era stato proprio fra Scipione il quale non aveva esitato a mettere in dubbio l'autenticità degli «antichi privilegi» in forza dei quali i verginiani difendevano i propri diritti. Né basta, ché lo storico contestava le origini stesse dell’abbazia, attribuendone la fondazione non a S. Guglielmo ma a S. Vitaliano. Inoltre il Bella Bona rivendicava con forza ad Avellino le vicende agiografiche e le reliquie di S. Modestino che invece Mercogliano attribuiva a sé.
Si spiega abbastanza agevolmente, quindi, la virulenza delle reazioni suscitate dall’opera del Bella Bona e la conseguente azione repressiva delle autorità, sia feudali che napoletane, che non intendevano esasperare ulteriormente le già acute tensioni. Il Bella Bona, inoltre, aveva del tutto sbagliato il momento della pubblicazione del volume: il vescovo Giustiniani era assente dalla diocesi e dal regno, essendo stato chiamato a render conto delle sue intemperanze a Roma, né poteva proteggerlo, ammesso che l’avesse voluto, il principe di Avellino e duca di Atripalda Francesco Marino Caracciolo, ancora minorenne e in quanto tale sottoposto alla tutela dello zio.
Ma fra Scipione era un uomo tenace, e lungi dall’abbandonare gli studi li proseguì e sviluppò, preparandosi ad una seconda edizione del volume, da pubblicare in tempi migliori. L'opera originaria venne ora divisa in due parti: Avellino Sacro e Raguagli, nonché una terza, del tutto nuova, probabilmente composta di documenti, intitolata Chiara Luce, che nelle intenzioni dell'autore dovevano essere pubblicate separatamente. In effetti, solo i Raguagli vennero pubblicati nei primi mesi del 1656.
Questa volta il Bella Bona aveva preso qualche efficace precauzione: dedicò infatti l’opera a Francesco Marino Caracciolo, principe di Avellino, mentre per la stampa preferì scegliere Trani, più appartata e discreta rispetto a Napoli, e dove il volume fu pubblicato per i tipi di Lorenzo Valeri. Assai probabilmente, tuttavia, come appare da diversi indizi, l’autore non attese direttamente alla pubblicazione della sua opera e, da tempo ammalato, egli si spense il 21 maggio del 1656, come c’informa un’annotazione di un Necrologio dei Frati minori conventuali. Si era alla vigilia dell’esplosione della grande epidemia di peste che avrebbe cancellato gran parte di quella realtà in cui il frate avellinese aveva operato e lottato.