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    03/07/2024

Il sistema delle banche cooperative nell'Irpinia di fine Ottocento

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Una veduta di OrsaraTra la fine del secolo XIX e gli inizi del secolo XX il movimento cooperativistico si presentava in Italia articolato in due grandi settori: quello delle banche popolari e quello delle altre forme di cooperazione. Tra il 1875 e il 1892 in Irpinia sorgevano venti banche locali; di esse, quindici erano banche popolari che svolgevano operazioni di credito nell’ambito dei soci-azionisti. Circa un terzo dei soci proveniva dal ceto proprietario e le prime esperienze bancarie si caratterizzavano per una gestione personalistica. Agli inizi degli anni ’90 con l’esplodere della crisi bancaria crollò il fragile sistema irpino con la stessa velocità con cui era sorto. Una banca intesa come momento di conservazione di determinati equilibri socio-economici serviva solo a contenere le tensioni che attraversavano la società meridionale.

La Banca Popolare Cooperativa di Orsara, all’epoca piccolo Comune irpino, può ritenersi una filiazione della locale società operaia perché molti erano i soci e dell’una e dell’altra e già nell’assemblea del 1 giugno 1884 Michele Cappiello, presidente della locale società operaia, auspicava di aprire “una sottoscrizione ad azioni fra i soci per realizzare il nobile desiderio di vedere quanto prima inaugurata una banca popolare cooperativa a beneficio della misera gente, che era presa per la gola dagli usurai e dagli strozzini”.

Il desiderio si avverò l’11 febbraio 1886 quando fu rogato l’atto costitutivo della banca con lo scopo di accordare il credito ai proprietari soci, facilitare lo sviluppo e l’incremento delle piccole industrie, del piccolo commercio, nonché il miglioramento agrario. Già dal 17 giugno 1883 fu istituito ad Orsara un monte frumentario con decreto reale di Ferdinando II. I monti frumentari si possono considerare come i più antichi istituti di credito agrario dell’Italia meridionale; avevano lo scopo di sussidiare la classe dei contadini poveri, somministrando loro le sementi di cui avevano bisogno per la coltivazione dei campi con l’obbligo della restituzione al tempo della raccolta, con l’aumento di una misura e mezzo, o due a tomolo. I monti frumentari, inoltre, elargendo i loro prestiti caso per caso in funzione delle effettive necessità (microcredito), possono essere visti come i primi finanziatori del credito al consumo o anche come delle banche dei poveri ante litteram.

Nell’ambito della gestione vi furono forti polemiche a Orsara tra l’amministrazione comunale e gli amministratori del monte e così cominciò a farsi strada l’idea della banca cooperativa. Ad Orsara evidentemente sulla base dell’istituzione della banca non vi era una matrice esclusivamente economica ma una strategia di potere dei ceti dirigenti locali. Sotto questo aspetto l’apparizione delle banche si preannunciava come un elemento importante delle dinamiche che attraversavano la società meridionali. Le relazioni inaugurali lette dinanzi alle assemblee dei soci tratteggiavano a tinte fosche la situazione economica orsarese indicando appunto nella costituzione della banca il rimedio conto lo svilimento dei prezzi dei prodotti agricoli. In un contesto caratterizzato da povertà, il ricorso alla solidarietà bancaria assumeva le caratteristiche di una società di mutuo soccorso su basi finanziarie.

Gli orizzonti in cui si muoveva l’iniziativa bancaria erano ristretti, incentrati su una concezione dell’associazione in chiave difensiva e d’altra parte la dimensione della banca rispecchiava la povertà dell’ambiente che la esprimeva. Il capitale sociale era modesto ed era di £. 29.350, ma a fronte della sua limitatezza, la banca immediatamente svilupperà un buon volume di affari e relativamente al primo anno di attività, il volume delle anticipazioni della banca fu di £. 41.408. Nei soci promotori vi erano cinque possidenti, un professionista, due impiegati, cinque artigiani, quattro senza qualifica. Il consiglio di amministrazione era costituito da quattro possidenti, un professionista, due artigiani. Il quadro dei soci promotori e del consiglio di amministrazione riporta alla ribalta il ceto possidente. I livelli della vita politica erano coinvolti in posizioni preminenti e confrontando gli elenchi dei componenti del consiglio di amministrazione con quelli dei consiglieri provinciali, si rileva che ogni banca aveva il suo consigliere provinciale, o forse è meglio affermare che ogni consigliere provinciale aveva la sua banca. Il cav. Giulio Cesare De Gregorio era il presidente della Banca Cooperativa di Orsara ed era anche consigliere provinciale irpino.

Con la riforma elettorale del 1882 il corpo elettorale si era dilatato e la banca venne ad assolvere un ruolo di primo piano inserendosi nella nuova configurazione della rete del potere. Risvolti politici condizionavano l’attività bancaria. Ad Orsara gli interessi di potere si sposavano con quelli finanziari e quindi si assisteva ad una gestione del credito permissiva in cui gli amministratori si facevano garanti dei creditori come avallanti di effetti di comodo di piccolissime somme per semplici debiti di proprietari ed artigiani, in disprezzo delle più elementari garanzia di solvibilità del cliente. Così utilizzando danaro altrui, gli amministratori foraggiavano le proprie clientele. Le associazioni operaie, le banche, l’esattoria, i Comuni erano gli strumenti nelle mani di una o più famiglie che esercitavano il potere nei piccoli comuni. Erano i caratteri della lotta per il potere nel Mezzogiorno in età liberale. La banca era stata concepita come agente di conservazione di determinati equilibri socio-economici e si prefigurava di evitare la scomposizione del ceto dominante e contenere le tensioni che in quel momento attraversavano la società meridionale e quindi emerge chiaramente una funzione politica della banca.

Dalla lettura della relazione del liquidatore giudiziario Camillo Mira del 26 maggio 1891 si apprende che i membri del Consiglio di amministrazione direttamente o indirettamente coinvolti nell’arena del potere amministrativo locale (sette su nove) figuravano come avallanti di trentadue effetti per un valore complessivo di 9.249 lire, oltre ad essere effettivi debitori per una somma che è circa il doppio di quella per cui si sono fatti garanti verso terzi. In un’ottica clientelare il mezzo più convincente era la cambiale, ma anche altre attività della banca potevano essere piegate ai fini del controllo sociale. Il servizio di esattoria comunale poteva essere funzionale agli scopi prefissi. I Comuni, soffocati da indebitamento, per non essere bloccati nell’attività amministrativa, introducevano tasse quali quella sul focatico, il dazio consumo, sovrimposta terreni e fabbricati. I malcontenti venivano ammortizzati dalla banca, perché da un lato tollerante con i contribuenti e dall’altro con delle anticipazioni, garantiva il regolare andamento delle attività amministrative.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento si fece strada un clima di euforia che contagiava le realtà periferiche nella corsa alle banche cooperative tanto da far scrivere a un deputato meridionale, Francesco Perrone “pareva fiorita l’età dell’oro e non sapevi che di meglio ascoltare […] ogni paesuccio possedeva o ambiva di avere la sua banca cooperativa; vi si impiegavano da quattro a otto borghesini; si vestiva a Direttore il Sindaco del luogo; il cassiere si arrotondiva facendo feste […]”.

La Banca Agricola Industriale di Ariano “aiutava” le nascenti banche popolari, grazie alla figura di un banchiere, l’avvocato Giuseppe Luparella, che compariva tra i sindaci della banca orsarese. I risultati ottenuti furono soddisfacenti tanto che nel primo semestre del 1886 si fecero operazioni per oltre 200.000 lire e furono ammortizzate tutte le spese d’impianto. Nonostante ciò, la banca orsarese ebbe, però, una vita breve perché il 14 luglio 1889, dopo diverse convocazioni, gli azionisti deliberarono lo scioglimento della stessa. La riunione fu abbastanza vivace poiché tutti avevano compreso che i liquidatori nominati nulla o poco avrebbero potuto realizzare, essendo l’attivo costituito quasi interamente da cambiali di debitori, in massima parte non estranei all’amministrazione della banca stessa, i quali erano o, per effetti di cessioni più o meno premeditate ed effimere, divennero insolvibili. Questo stato di cose, del resto, in paese era stato previsto da chi non ignorava i veri intendimenti con cui fra i protesti che fioccavano, venne fuori questa istituzione che, a detta di alcuni, doveva segnare la rigenerazione morale ed economica del paese.

La verità è racchiusa in alcuni interventi di soci: “già noi dovevamo pagare certe spese di guerra affermò nell’adunanza un azionista. Qualche altro ragionevolmente domandava se era giusto che si fossero percepiti non pochi stipendi a carico della banca senza che questa realmente funzionasse. Molti poi conclusero “e con queste altre prove, si combatte sempre e si pretende di voler arrivare ad ogni costo ad amministrare la cosa pubblica. Oh la bella riuscita che ha fatto davvero questa altra catapulta con cui si doveva muovere alla conquista del Municipio”.

 

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