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    22/07/2024

Un viaggio tra presente e passato. Filippo Pacini e la Scuola medica pistoiese

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L'ospedale del ceppo di PistoiaPISTOIA – Ospitiamo un intervento di Lorenzo Alviggi, medico, irpino, sulla figura e l’opera di un grande scienziato toscano, Filippo Pacini (Pistoia, 25 maggio 1812 – Firenze, 9 luglio 1883), formatosi alla Scuola medica pistoiese, nel 140° anno dalla sua morte.

Nato ad Atripalda l’8 giugno 1948, Lorenzo Alviggi è stato allievo del liceo classico Pietro Colletta, la scuola avellinese che ha rappresentato un punto di riferimento per la classe politica e intellettuale della nostra provincia, e non solo, e che fu un’autentica fabbrica di cervelli tra i cui banchi, oltre a personalità del livello del latinista Enrico Cocchia e del grande meridionalista Guido Dorso che colloborava con Piero Gobetti, autore della Rivoluzione liberale, grazie al magistero di docenti quali Giovanni Barra, Enrico Freda e Angelina Patrone, si sono formati allievi del calibro di Antonio La Penna, Dante Della Terza, Antonio Maccanico, Attilio Marinari, Carlo Muscetta, Gennaro Savarese, Giuseppe Velli, Fiorentino Sullo, Dante Trosi solo per citarne alcuni.

Si è laureato in Medicina e Chirurgia a Napoli dove ha conseguito anche le specializzazioni in Medicina Interna ed in Allergologia e Immunologia Clinica. Come vincitore di borsa di studio per l’estero del Cnr, è stato Research Fellow presso il Dipartimento di Immunologia del King’s College Hospital Medical School di Londra dal 1982 al 1985.

Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Napoli per gli anni accademici 1987/88, 1988/89 e 1989/90. Ha lavorato presso l’Ospedale del Ceppo di Pistoia come medico internista ed è stato responsabile della Diabetologia dal 1997 al 2010. Suo interesse scientifico prevalente è stato lo studio delle malattie autoimmuni organo-specifiche, in particolare del diabete mellito tipo 1.

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Il 10 maggio 2023 i miei più cari amici di Avellino mi hanno raggiunto a Pistoia, città in cui risiedo, ed ho colto l’occasione per far conoscere loro la città e parte della sua storia, con il prezioso aiuto dell’amico e collega Giuseppe Seghieri, attuale presidente dell’Accademia Medica Filippo Pacini.

Quando sono arrivato a Pistoia da giovane medico per svolgere la mia professione nell’ospedale cittadino portavo con me i ricordi letterari che avevo di essa attraverso i versi di Dante Alighieri con giudizi del tutto negativi su Pistoia (nello spirito dei feroci odi municipali del tempo), che veniva definita “degna tana” di Vanni Fucci, “ladro alla sagrestia de’ belli arredi”. Nell’invettiva susseguente “Ahi Pistoia, Pistoia…”. Dante auspicava che la città potesse incenerirsi.

Si può affermare, ora, che sarebbe stata una grave perdita perché avremmo perso l’immagine che oggi la città ci tramanda. Pistoia, infatti, ha conservato un aspetto medioevale con vie strette e piazzette irregolari ed è sede di edifici di epoca medioevale e rinascimentale di grande fascino.

Uno di questi è l’Ospedale del Ceppo, gioiello architettonico e scultoreo della città, per la presenza dello splendido fregio cinquecentesco in terracotta invetriata che raffigura le sette opere di carità. Lo scrittore e giornalista statunitense William Dean Howells, di passaggio a Pistoia nel 1885, scrisse: “La principale opera d’arte per la quale si vorrebbe ritornare a Pistoia è il fregio in maiolica che rende immortale l’Ospedale del Ceppo”.

Una leggenda popolare racconta che due anziani coniugi pistoiesi sognarono la Vergine Maria che pregò loro di fondare un ospedale nel luogo dove essi avessero trovato un ceppo secco che germogliasse in pieno inverno. Sembra, più probabilmente, che il nome sia derivato dall’usanza toscana di lasciare le offerte per i poveri e gli ammalati in un ceppo svuotato; fu, appunto, in un “ceppo” di castagno che vennero raccolti i primi contributi per l’edificazione della struttura. La Scuola medico-chirurgica situata all’interno dell’ospedale fu fondata intorno al 1666 con decreto mediceo, quasi ad istituzionalizzare una pratica che, come si può rilevare dal “Fregio robbiano” nella formella “Visitare gli infermi”, esisteva già.

Seppure di minore importanza rispetto alle scuole chirurgiche di Firenze e Pisa, la Scuola chirurgica dell’Ospedale del Ceppo ebbe un posto di rilievo nello scenario della medicina italiana ed europea, grazie ai nomi prestigiosi che riuscì a formare. Il nome “bisturi”, che indica quel coltellino che usano i chirurghi nelle loro operazioni, è strettamente legato a Pistoia, quasi ad individuare un nesso tra la città e la sua vocazione anatomica e chirurgica. Il termine deriverebbe da un tagliente fabbricato in città e per questo chiamato “il pistorino”. Questo strumento, importato in Francia, avrebbe ricevuto il nome attuale. Si legge infatti nel Diction. De med. et de chirug. T. IV p. 30, Paris 1830: “Bistouri, mot derivé. selon Huet, du nom de Pistori (Pistoria, leggi Pistoia), ville dans laquelle existait une fabrique tré-renomèe d’ instrument de ce genre”.

La fabbrica di strumenti di acciaio, specialmente chirurgici, apparteneva ad Eucherio Palmerini ed esistette fin verso il 1886. Il famoso chirurgo prof. Dupuytren (1777-1835) si forniva dal Palmerini e, in occasione di un suo viaggio a Firenze, si recò a Pistoia per salutarlo ed elogiarlo. All’interno dell’ospedale è stato possibile visitare l’interessante Museo della Scuola medico-chirurgica pistoiese, ove sono esposti numerosi strumenti chirurgici alcuni dei quali risalgono al 1600 ed una considerevole quantità al XVIII e XIX secolo. Molti di questi strumenti sono stati recuperati dai sotterranei dell’ospedale dove giacevano dimenticati, grazie all’opera meritoria di Luigi Brancolini e di Giancarlo Niccolai, medico anestesista che ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere.

La storia della chirurgia è collegata in modo diretto con il progredire delle conoscenze scientifiche in campo anestesiologico ed infettivo. Gli ostacoli principali che si opponevano al progresso della chirurgia erano rappresentati dalla mancanza di un’efficace anestesia per evitare al paziente il terribile dolore (causa, spesso, di gravissimo shock intraoperatorio) e dalle infezioni.

Tentativi di soppressione del dolore durante gli interventi chirurgici furono praticati in ogni civiltà, ma con risultati modesti. Possiamo ricordare i tentativi della Scuola Medica Salernitana con la spongia somnifera e nel XIII secolo la confectio soporis: una spugna imbevuta di sostanze narcotiche posta sulle narici dell’operando, propugnata da un medico lucchese.

Un sostenitore dell’anestesia per inalazione, Giovan Battista Della Porta, nella seconda metà del XVI secolo, venne accusato di magia dalla Inquisizione e rischiò di finire sul rogo. Si deve giungere al XIX secolo per la messa a punto di tecniche anestesiologiche tuttora in uso per la soppressione totale del dolore chirurgico.

Chirurgia (dal greco chéir: mano ed érgon: lavoro) significa “lavoro manuale”. La sua etimologia, probabilmente, contribuì a farla considerare, specialmente nel Medioevo e nel Rinascimento, un’arte inferiore da lasciare ai barbieri, ai cerusici, “operatori sanitari” di rango molto inferiore ai medici e privi di preparazione culturale e filosofica. Ancora oggi il termine “cerusico” si utilizza, in senso scherzoso o dispregiativo, per indicare un chirurgo di scarso valore.

Nel XVIII secolo la pratica della chirurgia era considerata ancora un mestiere non confacentesi all’alta dignità del medico qualificato il quale, all’atto della sua nomina a dottore dell’arte medica, doveva esplicitamente dichiarare di non esercitare la chirurgia. Fu necessario che Luigi XIV (il Re Sole) si ammalasse di fistola rettale e che fosse operato da un famoso chirurgo dell’epoca con esito felice, perché la chirurgia non fosse più sottovalutata nella pratica medica. La considerazione aumentò negli anni successivi fino ad ottenere l’ambìto riconoscimento della facoltà medica di Parigi, che sancì definitivamente la “Laurea in Medicina e chirurgia”.

La Scuola medica pistoiese ebbe vita gloriosa per quasi due secoli ma fu chiusa nel 1844 in conseguenza della riforma granducale degli studi universitari in Toscana. La maggior parte degli studi medici fu assorbita dalla più grande Scuola medica fiorentina, trasformata in Università in virtù di tale riforma. Verso la fine del XVII secolo venne costruito, per impartire l’insegnamento della materia anatomo-chirurgica, un piccolo anfiteatro anatomico, che ancora oggi si può ammirare nel giardino dell’Ospedale del Ceppo. Serviva da locale per la dissezione dei cadaveri dei pazienti morti nelle corsie del nosocomio e per lo studio pratico dell’anatomia e della chirurgia e del loro insegnamento.

Fu in questo teatro anatomico che Filippo Pacini, il più grande scienziato che la Scuola medica pistoiese abbia espresso, osservando, da giovane studente pieno di entusiasmo, le preparazioni anatomiche della mano eseguite dai colleghi più anziani, fu colpito da certe minuscole formazioni di colore bianco simili a “piccole uova” che si trovavano lungo le terminazioni digitali del nervo mediano:  erano i famosi “corpuscoli”, scoperti nel 1831 a soli diciannove anni, nella sua veste di “alunno interno” iscritto al secondo anno di medicina.

Agli interrogativi che egli si poneva cercò di trovare delle risposte dai suoi insigni maestri per i quali questi piccoli globetti di forma ellissoidale erano “corpuscoli di grasso” o “tessuto cellulare condensato”. Col tempo e forse tenendo presente la frase scolpita su una parete del piccolo teatro anatomico: Nil tam difficile quin quaerendo investigari possit (niente è tanto difficile da non poter essere rintracciato  con accurata ricerca) e grazie al suo intuito di ricercatore, Filippo Pacini si rese conto che quei piccoli corpi erano di origine nervosa e capì che per rendere più attendibile la sua scoperta doveva argomentarla con dati obiettivi che solo la ricerca microscopica poteva fornirgli.

Con i suoi magri risparmi, durante un mercato, acquistò su di una bancarella, come lui stesso racconta, “un microscopiuccio di legno dal modico prezzo di 10 paoli”. Questo tubo di legno con alle estremità due lenti non acromatiche che ingrandivano 25-30 volte fu il primo apparecchio che usò il Pacini e che gli dischiuse la porta sul nuovo capitolo dello studio sistematico della istologia in campo medico. Si può tranquillamente dichiarare che, da quel momento, nasceva in Italia la ricerca istologica. Le prime ricerche sui corpuscoli non furono messe in risalto dalla stampa scientifica sia per la naturale modestia di Pacini sia per lo scetticismo che gli accademici nutrivano verso questo giovane che, soltanto due anni dopo l’ingresso alla Scuola medica, aveva “superato” gli insegnanti.

Solo nel 1835 Filippo Pacini trovò il coraggio di inviare alla Società medico-fisica di Firenze una memoria “Sopra un particolare genere di corpi globulari scoperti nel corpo umano da Filippo Pacini alunno interno degli Imperiali e Reali Ospedali Riuniti di Pistoia”. Il 22 novembre 1835, durante una riunione di insigni accademici, la memoria venne letta e la relazione fu pubblicata circa quattro mesi dopo nel “Nuovo Giornale dei Letterati”.

Il Pacini, nel 1837, si trasferì nella prestigiosa Facoltà di Medicina di Pisa, ritenuta allora la più illustre e celebre Università d’Italia, dove il 6 giugno 1839 si laureò in Medicina e l’anno seguente in Chirurgia. Fu allora che, in possesso ormai di titoli accademici e non più sconosciuto studentello, decise di presentare al I Congresso degli scienziati italiani, che si sarebbe tenuto a Pisa nell’ottobre del 1839, una seconda relazione sui “nuovi organi” più approfondita ed aggiornata. Egli aveva già accumulato molte nuove osservazioni microscopiche, ma, da ricercatore scrupoloso ed onesto qual era, volle di nuovo controllarle con un microscopio “vero”. L’occasione gli fu offerta dal mecenate pistoiese Niccolò Puccini che, venuto a conoscenza della bravura del suo concittadino, gli mise a disposizione un suo microscopio orizzontale costruito dal naturalista modenese Giovanni Battista Amici (conservato nel Museo civico di Pistoia).

La sezione di Medicina del I Congresso degli scienziati nominò una apposita commissione composta da quattro professori perché verificasse l’esistenza di quegli organi. La commissione rispose semplicemente che le formazioni effettivamente esistevano ma che non si poteva dire “se piuttosto che nuovi organi non fossero espansioni tendineo-aponevrotiche”.

Di fronte a questa colpevole noncuranza sulla grande scoperta il Pacini non si arrese, ma, munito solo del suo formidabile ingegno e del suo entusiasmo, continuò le ricerche facendo nuove osservazioni e stabilendo nuovi criteri di indagine. Finalmente, in occasione del V Congresso degli scienziati italiani tenutosi a Lucca nel settembre 1843, fu riconosciuta a Filippo Pacini la piena ed assoluta paternità della scoperta, grazie ad una famosa lettera inviata da Zurigo, il 14 settembre, al presidente del Congresso da un illustre anatomico di lingua tedesca Friedrich Gustav Jakob Henle, insieme ad un suo collega, Rudolf Albert von Kölliker, nella quale si riconosceva al Pacini il merito di avere scoperto, descritto e correttamente interpretato quei corpuscoli che essi proponevano di chiamare “Pacinischen Korperchen”.

Non pochi studiosi italiani, specialmente toscani, continuarono a disconoscere questi “organi nuovi” e la loro connessione col sistema nervoso e scatenarono una ondata di meschina invidia e gelosia, scrivendo pubblicazioni che costrinsero il Pacini a distrarsi dai suoi studi per rispondere con precise e lucide argomentazioni. Le avversità dovute all’invidia dei suoi colleghi continuarono ma Pacini ricevette la stima e l’ammirazione di molte grandi personalità del mondo scientifico, quasi sempre straniere. Ancora oggi, purtroppo, i nostri ricercatori vedono, spesso, riconosciuti i propri meriti prima di tutto dal mondo scientifico straniero.

Filippo Pacini nutriva nei confronti del microscopio una vera e propria passione e dedicò molto del suo tempo a perfezionarne al massimo le potenzialità apportando delle modificazioni specialmente nel porta-oggetti del microscopio, avendo incontrato notevoli difficoltà nel manovrare convenientemente i preparati mentre li osservava.

Egli si spinse fino al punto di costruire un microscopio nuovo con l’aiuto di un “abilissimo meccanico fiorentino Corrado Wolf” e grazie ad un contributo economico del Granduca Leopoldo II. Il Pacini, aiutato dal suo prezioso strumento, riuscì a fornire risposte a tante domande e a prospettare tesi innovative durante la epidemia di colera asiatico scoppiata a Firenze ed in altre zone della Toscana nel 1854 e causa di migliaia di morti. Egli, avendo letto un Rapporto Sanitario su di una epidemia colerica in Parigi, era stato colpito da una frase riportata in quel rapporto: “Bisognerebbe meglio indagare chimicamente e microscopicamente le parti affette dal colera, perché se ne potrebbero ricavare cognizioni importanti”. Questa affermazione amplificò in lui quella voglia di indagare, verificare, insita nella sua natura, fino ad arrivare ad individuare, analizzando il sangue, l’urina, il vomito, l’intestino e la sua mucosa nei cadaveri di alcuni colerosi, un “microbio” come causa scatenante della terribile malattia.

Filippo Pacini formulò, sulla base di rigorose ed acute indagini microscopiche ed anatomo-patologiche effettuate sul materiale biologico ottenuto da alcuni cadaveri di colerosi, delle teorie sulla fisiopatologia della malattia che ancora oggi, a distanza di più di un secolo, sono ufficialmente patrimonio della Organizzazione mondiale della sanità. Famose le sue preparazioni microscopiche e quelle istologiche che conservava avvolgendole in una carta di colore verde dove annotava in superficie le loro caratteristiche come riferito dal Castaldi. I bellissimi e chiarissimi preparati microscopici sono ancora esistenti e consultabili nel Museo anatomico di Firenze.

In quell’era, non ancora illuminata dalle grandi scoperte di Pasteur, il Pacini fu il primo ad affermare un nesso di causalità tra un microrganismo precisamente individuato e una malattia infettiva dell’uomo. I suoi avversari, molto influenti ed ascoltati in campo scientifico, scatenarono contro di lui una ben orchestrata campagna denigratoria. In patria e specialmente a Firenze le sue teorie eziopatogenetiche sul colera asiatico furono definite “oziose curiosità” e liquidate con parole di compassione; in Inghilterra, invece, esse vennero riportate e commentate con grande interesse in una importante seduta scientifica dei due rami del Parlamento. Dai suoi “Manoscritti” apprendiamo che egli spedì copie della “memoria sul colera” a Firenze ed in diverse altre città italiane ma anche in Francia, Inghilterra, Germania ed altri paesi europei. Il Castaldi, nel suo lavoro su Filippo Pacini per il quarantesimo della morte nel 1923, scrisse che l’esemplare dell’opuscolo del Pacini del 1854, conservato nella biblioteca medica fiorentina, era ancora intonso quando egli per primo l’ha dovuto tagliare per leggerlo dopo sessantanove anni.

Res ipsa loquitur, avrebbero detto i coetanei di Cicerone. I nomi di tutti coloro che parteciparono alla meschina e vergognosa guerra contro il Pacini, sebbene celebrati in vita, sono scomparsi dalla memoria dei posteri, e se di essi qualcosa è rimasto si tratta solo del ridicolo del quale allora si ricopersero. La faziosa disconoscenza del suo valore di scienziato raggiunse il culmine nel 1881 quando la Commissione dell’Accademia dei Lincei, che doveva assegnare un premio di lire diecimila, istituito dal re Umberto I per le scienze biologiche, non solo non lo assegnò al Pacini, ma con uno stratagemma lo esclusero perfino dalla graduatoria. Il ministro della Pubblica istruzione, Guido Baccelli, accortosi della tremenda ingiustizia, offrì allo scienziato la onorificenza di commendatore del Regno.

Questa volta il Pacini non ebbe la forza di sostenere l’offesa accademica che gli era stata arrecata. L’amarezza e lo sconforto per la disconoscenza del suo valore di scienziato lo colpirono profondamente come si può rilevare leggendo i suoi “Manoscritti”; egli ne fece una vera e propria malattia tanto da compromettere le sue condizioni di salute al punto tale da portarlo alla morte.

Filippo Pacini si spense l’8 luglio 1883 nella sua modesta casa di Firenze in via di Mezzo, solo, ma in compagnia di quella che per lui era stata come una madre, nel nome della quale aveva combattuto per tutta la sua vita sopportando umiliazioni e rinunzie: la Scienza.

Alle esequie, celebrate con rito cattolico, erano presenti solo pochi amici fidati, alcuni allievi che lo stimavano e gli erano riconoscenti, e numerosi cittadini fiorentini che egli aveva assistito durante l’epidemia colerica; assenti le personalità del mondo scientifico e della cultura. Il Comune di Firenze, città cui aveva dato tanto sia nell’insegnamento accademico che nell’assistenza ai cittadini durante l’epidemia colerica, si rifiutò di trasformare la via di Mezzo in via Pacini.

Solo due anni dopo la sua morte, il 23 agosto 1885, i suoi concittadini gli tributarono gli onori che non aveva avuto in vita. Il senatore Iacopo Moleschott, in un discorso tenuto per l’occasione, lodò la grande mente scientifica del medico pistoiese evidenziando come dai suoi scritti era difficile rilevare se egli fosse professore d’istologia, di anatomia, di patologia o di fisiologia.

A parere del senatore, il motivo per il quale il Pacini non era riuscito ad avere in vita gli onori che gli erano stati tributati dopo la sua morte era da ricercare nel carattere dello scienziato pistoiese, che non s’ inchinava e certe cose non perdonava”. Filippo Pacini era nato il 25 maggio 1812 da Francesco, ciabattino, mestiere che in ogni epoca non è mai stato sinonimo di ricchezza. Sua madre portava un nome che contraddistinse sempre il modus operandi del grande ricercatore: si chiamava, infatti, Umiltà.

 

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