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    03/07/2024

Il vescovo di origine irpina con l’accento dei Sopranos

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura_sopranos.jpgAVELLINO – Se Henry Miller nelle pagine di Il Tropico del cancro sostiene provocatoriamente che l’America non esiste, il giornalista Maurizio Molinari, corrispondente dagli Stati Uniti de La Stampa, riempie invece di vita vera tutti i luoghi newyorchesi dove ha vinto l’estro e la creatività degli emigranti italiani, soprattutto di quelli provenienti dal Sud della penisola. Il libro Gli italiani di New York, edito da Laterza (2011), racconta di una brulicante umanità che in nome dell’american dream ha lavorato e sudato per costruire l’America, ma soprattutto per definire una propria identità culturale che, pur fra mille contraddizioni, è riuscita ad emergere in quel crogiuolo di razze ospitate dalla grande mela, proprio grazie al legame rimasto intatto con valori ereditati dall’appartenenza all’Italia e ostinatamente tramandati.

A New York si sommano e si sovrappongono le identità italiane del passato e del presente, accomunate da una grande vitalità e da una straordinaria energia: ci sono gli eroi di Ground Zero, il giudice di Madison Square, i difensori di Arthur Avenue, le panelle di Ridgewood, il prete di frontiera a Bensonhurst, le ballerine di Broadway, i dollari di San Gennaro, i banchi della Rutgers University, il veterano dell’Onu, i riformisti di Tammany Hall, l’imprenditore fuggito dall’Italia, la fisica teorica fra Lenin e Goldman Sachs, le quattro stelle di Lidia, lo scrittore di Ocean City, il designer dei pezzi unici e tanti altri come loro.

Nell’introduzione il giornalista avverte il lettore: “queste pagine fotografano la realtà degli italiani di New York così come accoglie un qualsiasi viaggiatore […] I percorsi attraverso popolo, fede, politica, rapporto con l’Italia, business e arti si sviluppano descrivendo personaggi e luoghi che li costellano. Ci si immerge così  in un mondo che, seppur a 6916 Km di distanza dallo Stivale, ci appartiene. E’ parte di ogni italiano, indipendentemente dal suo luogo di nascita o residenza…”

Nel fitto elenco anche Nicholas Dimarzio, vescovo dal 2003 della diocesi di Brooklyn Queen: parla con un forte accento meridionale che gli proviene dalla terra di origine dei suoi nonni, Avellino, Campobasso e Salerno e guida una delle diocesi più grandi d’America.

Al giornalista Dimarzio spiega il rapporto che gli italiani di America hanno con la fede: “qui è come l’Italia, per gli italiani la vostra più importante è la famiglia, dopo viene il resto, fede inclusa. La povertà e le privazioni hanno allontanato nel tempo gli emigrati dalla fede, spinti com’erano da bisogni più urgenti, “avevano troppa fame ed erano troppo poveri per poter pensare alla fede”. Successivamente, però, la spinta all’integrazione li ha riavvicinati alla Chiesa. Dimarzio spiega come le sofferenze subite, hanno temprato lo spirito e il carattere degli italo-americani: il loro cattolicesimo è stato ostacolato dagli irlandesi, da cui subirono una lunga discriminazione, e ha pesato la mancanza di aiuti da parte dell’Italia nella conservazione di  lingua e identità. 

Al vescovo è capitato spesso di imbattersi in famiglie della criminalità organizzata e di lavorare anche contro il pregiudizio culturale collettivo, per cui la gran parte degli italiani restano mafiosi. Sorride, ricordando che in un viaggio in Australia gli fecero notare che aveva l’accento come quello dei Sopranos.

 

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