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    03/07/2024

L'arte medievale in Irpinia

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La basilica paelocristiana di Prata Principato UltraArte medievale in Irpinia, scritto da Giuseppe Gandolfo, storico dell’arte medievale, e da Giuseppe Muollo, storico dell’arte, funzionario della Soprintendenza di Salerno e Avellino, Edizioni Artemide, è un corposo volume di 336 pagine,  ricco di 385 immagini a colori che condensano tutte le realtà artistiche del territorio irpino, dall’Alto Medioevo paleocristiano a tutto il XV secolo. I saggi dei due studiosi ripercorrono la storia artistica in Irpinia suddivisa in otto parti: le testimonianze paleocristiane e longobarde; l’epoca normanna; l’età federiciana; dagli Svevi agli Angioini; centro e periferia nella prima età angioina; le architetture di età angioina; la crisi del secondo Trecento; verso il tardo gotico. La pubblicazione del volume è stata resa possibile grazie al contributo di più enti: l’amministrazione provinciale di Avellino, l’abbazia territoriale di Montevergine, l’arcidiocesi di Benevento, l’arcidiocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia, la diocesi di Ariano Irpino-Lacedonia, la diocesi di Avellino, la diocesi di Nola e la Camera di commercio di Avellino.

Il libro viene presentato come un grande contributo agli studi dell’arte e in particolare a quelli cruciali del Medioevo: si tratta di un lungo ed approfondito lavoro di esplorazione e di ricerca che attesta la presenza nel territorio irpino di numerose tracce di passaggi e migrazioni di popolazioni e dunque di commistioni di culture. Non caso la regione è definita spesso terra di mezzo sia per lo sviluppo, sin dall’antichità, di una viabilità che facilitava e consentiva il collegamento tra la Campania e la Puglia sia come terra di transumanza, ma anche di crocevia, di collegamento tra realtà differenti, tra due mari, il Tirreno e l’Adriatico, tra due civiltà diverse, tra l’Oriente e l’Occidente, dunque crogiuolo di culture diverse.

Il volume si pone l’obiettivo oltre che di valorizzare del territorio irpino, attraverso la lettura della sua arte medievale, di rilanciare un discorso sulle sue emergenze culturali e sull’importanza del lavoro di recupero e di restauro di beni architettonici spesso trascurati e sottovalutati nella loro importanza. Le numerose opere segnalate  contribuiscono a promuovere la conoscenza di una parte significativa del territorio irpino e a definire il ruolo centrale che l’Irpinia ha avuto, durante il Medioevo, come è attestato da i molteplici  contesti di rilevanza culturale segnalati: i centri storici, i borghi, i castelli, i santuari, le chiese, le aree archeologiche, i musei, le opere d’arte custodite soprattutto negli edifici religiosi, sono la testimonianza di una ricchissima frequentazione umana oltre che di un fermento culturale vivacissimo.

Le forme espressive approfondite nel libro aprono anche una prospettiva nuova sulla considerazione di una terra percepita spesso solo per le sue potenzialità paesaggistiche, per aprire ad una considerazione sulla sua vocazione turistica, legata principalmente alla valorizzazione dei beni artistici ed  architettonici. Per alcune sezioni individuo delle opere che più di altre hanno suscitato la mia attenzione di lettrice e di irpina. Ad Atripalda la cripta  della chiesa di Sant’Ippolisto considerata tra le prime tracce di una realtà artistica paleocristiana già proiettata al Medioevo, di cui vengono ricostruiti i restauri, ma anzitutto vengono attentamente ripercorse le tracce antecedenti: è risalente agli inizi del XIII secolo un mosaico pavimentale e un immagine del Salvatore, affiancata da venti figure di martiri che sono stati identificati grazie alle scritte poste su ognuno di essi.

Lo Specus martyrum, in cui venne seppellito il martire, subì ampliamenti e trasformazioni, prima ad opera del santo vescovo Sabino (morto nel 526) e poi nel corso dei secoli, soprattutto nel 1629, la cripta subì un radicale cambiamento per opera del principe di Avellino, Camillo Caracciolo Rossi,  per cui si presenta oggi in forma quasi del tutto nuova e diversa da quella che ebbe in origine. Nel libro gli studiosi evidenziano come, dopo tanti restauri, sia “ragionevole ipotizzare che quella che oggi ha finito con il diventare una forma architettonica dal sapore chiesastico sia nata come sistemazione sepolcrale e che la sua pervicace conservazione, in rapporto con la cripta, anche a costo di una collocazione decentrata rispetto agli assi suggeriti dall’ultima sistemazione del vano, sia stata determinata dall’importanza culturale che vi si riconosceva”.

Della cattedrale di Montemarano risalente, invece, all’età normanna vengono analizzate  le cinque coppie di colonne oggi visibili ed emerse dallo stucco barocco, per sottolineare come esso sia il prodotto di una precisa volontà dei committenti irpini di adeguarsi “ai modelli d’avanguardia presenti in quel momento a livello regionale e fortemente intrisi delle ragioni di una identificazione formale  nell’antichità cristiana”, secondo le scelte di gusto che si richiamavano, negli anni ottanta dell’XI secolo da ecclesiastici come l’arcivescovo di Salerno Alfano, strettamente legati all’ambiente della Montecassino desideriana. E’ importante sottolineare come nelle opere, qui analizzate con estrema cura e dovizia di particolari,  si possa ravvisare la sapienza costruttiva delle maestranze locali e la  predisposizione e l’apertura alle influenze e alle commistioni (ad esempio, se non nel caso specifico, quelle francesi).

Poche sono, invece, le testimonianze di cultura tardo gotica in Irpinia, fatta eccezione per l’affresco di San Michele Arcangelo, collocato nella Grotta di San Michele Arcangelo a Petruro. Gli autori ricostruiscono l’evoluzione dei due grandi pannelli con figure di santi, di cui uno si riconosce per l’abito di un santo domenicano, insistendo più che sul valore dell’opera (il pannello, scrivono, oltre che frammentario “appare ferocemente dilavato”) sull’interessante percorso delle committenze. Il primo pannello, infatti, malgrado sia stato evidentemente realizzato dallo stesso pittore, presenta due parti separate da una cornice verticale intermedia ed una diversa conformazione delle due cornici di base, per cui si propende per la tesi che allo stesso pittore si sarebbero rivolti contemporaneamente due committenti diversi e che i loro lavori poi sarebbero stati unificati pur mantenendoli distinti nei risultati.

Una ulteriore riflessione è condotta anche sull’uso dei materiali, in particolare su una certa abitudine locale a fare ricorso ad elementi poveri come lo stucco, per gli arredi interni delle chiese, come sembra confermato dai frammenti conservati nella Cattedrale di Montemarano. Questo comportamento, comune a molti lapicidi attivi in quel momento storico nella zona, sembra determinato, secondo gli autori, dalle richieste specifiche delle committenze locali che non disponevano di grandi risorse finanziarie ed intellettuali presenti altrove. A tal proposito, il pezzo più significativo è un leone stiloforo erratico nella cripta della Cattedrale di Frigento, in una versione estremamente semplificata e con una potenza e un vigore espressivo evidentemente minori rispetto al modello di riferimento di Pellegrino nel pulpito della cattedrale di Sessa Aurunca, poi ripreso da Bartolomeo da Foggia in quello della cattedrale di Ravello.

Queste sono solo alcune suggestioni derivate da una prima lettura del volume, che per la sua corposità, per la sua complessità, per la sua ricchezza di riferimenti bibliografici, necessita di tante riletture, così come allo stesso tempo è una pubblicazione che si rivolge al semplice appassionato di arte o allo studioso e al ricercatore.

Il volume è stato presentato, il 6 giugno scorso, presso la sala convegni del complesso monumentale dell’ex carcere borbonico, con l’intervento di prestigiosi intellettuali, dagli storici dell’arte Arturo Carlo Quintavalle e Pierluigi Leone De Castris, dal medievalista Enrico Cuozzo e dalla soprintendente per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Salerno e Avellino Maura Picciau.

 

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