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    03/07/2024

L’aquilone Avellino. Al Caffè letterario la presentazione del libro su Di Nunno

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura7_caflet.jpgAVELLINO – Al Caffè letterario del Lupo pub bistrot di Corso Umberto I la presentazione del libro Antonio Di Nunno. La moralità della politica (Il Terebinto edizioni) a cura di Generoso Picone e Carlo Silvestri in programma domenica 25 febbraio con inizio alle ore 18.00.

Il programma dei lavori, che saranno moderati da Gianluca Amatucci, prevede gli interventi di Cinzia Coppola e Michele Mercogliano. Concluderà Generoso Picone, già responsabile della redazione provinciale del Mattino.

Di Generoso Picone proponiamo il contributo pubblicato nel libro dal titolo L’aquilone Avellino.

*  *  *

L’immagine che Antonio Di Nunno aveva in mente quando ragionava sulla forma di Avellino era quella di un aquilone a cui una forza ostile, misteriosa e pressante impediva di alzarsi in volo. Si trattava di una citazione con la quale rendeva omaggio ad Antonio Aurigemma, il giornalista-sindaco che l’aveva preceduto in Comune di un quarto di secolo, amato e ammirato tanto da potersi dire il suo riferimento amministrativo di maggiore prossimità. Da lui aveva imparato a considerare la pratica dell’urbanistica nel verso della più acuta e profonda possibilità di conoscenza del carattere identitario di una comunità e, insieme, nella possibilità di recuperare la memoria di un senso antico e da qui creare l’occasione per progettare un significato futuro: se questo era – e questo continua a essere -, nel profilo di quell’intelaiatura romboidale spenta e incagliata al suolo Aurigemma prima e Di Nunno poi potevano scorgere i tratti eloquenti di un destino: l’aquilone Avellino costretto ad adagiarsi nel corridoio tra le colline, spento perché mortalmente ferito, immobile e rassegnato, irrisolto, sofferente, incompiuto. L’albatro spiaggiato della poesia di Charles Baudelaire, martoriato dai marinai che “L’hanno appena posato sulla tolda/e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso,/
pietosamente accanto a sé strascina / come fossero remi le grandi ali bianche”.

Aurigemma e Di Nunno erano convinti che le città si dovessero osservare principalmente dall’alto. “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”, dice il signor Palomar di Italo Calvino. È necessario, perciò, con cura il sali e scendi dei tetti, la sequenza di tegole vecchie e nuove, di coppi ed embrici, di comignoli esili o tarchiati e così poter leggere i percorsi di vita come si fa con le venature di una foglia e le rughe di una mano. Sarà per questa ragione che ogni rilievo aerofotogrammetrico svolto su uno scenario urbano sfugge inevitabilmente a una interpretazione esclusivamente tecnica e si rivela la cartografia dove poter intercettare la trama di un’ontologia dei luoghi, la geografia del loro valore che aiuta a conoscere la realtà nelle sue varie manifestazioni e azzardare una plausibile comprensione del pensiero ne ha guidato i movimenti.

Il racconto contenuto nella figura dell’aquilone bloccato su stesso era quello di una città che aveva slargato i suoi confini prima verso Est e quindi ad Ovest, dalla Puglia interna alla Napoli della costa, orientata da ragioni, necessità e urgenze economiche e produttive, ipotizzando di tratteggiare una sua identità inseguendole, salvo poi constatare di aver smarrito il suo centro di gravità. Un aquilone oblungo con un buco in mezzo, senza il motore di un respiro, l’apertura di un orizzonte.

IL FANTASMA DEL PIANO VALLE

Antonio Di Nunno aveva individuato in quest’anomalia la sgrammaticatura urbanistica, lo strappo consumato nel tessuto cittadino, l’incongruenza progettuale e la rappresentazione iconografica di Avellino consegnatagli da Aurigemma era diventata il paradigma di una attendibile antropologia sociale. Una vera e propria ossessione che si proietta nell’ansia di rileggere la vicenda del piano regolatore generale redatto da Cesare Valle nel 1933 e letteralmente scomparso nella devastazione dei bombardamenti del settembre 1943. L’architetto tra i più accreditati del regime fascista, collaboratore nella stesura del Prg di Roma, progettista della città mineraria di Carbonia in Sardegna, del nuovo disegno di Addis Abeba in Etiopia e già della caserma militare ad Avellino, nell’Italia repubblicana tra i protagonisti della scena nazionale e presidente di sezione nel Consiglio superiore dei Lavori pubblici, ad Avellino aveva puntato a un decentramento che superasse la funzione di perno urbano di piazza Libertà, procedeva attraverso radicali demolizioni e liquidatori sventramenti anche nella parte storica, muoveva verso il risanamento dei nuovi quartieri e la creazione di una rete di collegamenti interni ed esterni.

Ne sarebbe venuto il ribaltamento della città ottocentesca, che contava trentamila abitanti e simbolicamente si era sviluppata a partire dalla celebrata veduta Pacichelli, cioè dall’Avellino raccolta nell’incisione attribuita a Francesco Cassiano de Silva che l’abate Giovan Battista Pacichelli aveva raccolto ne “Il Regno di Napoli in prospettiva” del 1703. A quest’altezza cronologica può fissarsi il documento dell’urbanistica barocca declinata da Cosimo Fanzago, la sequenza di quadri dall’aura monumentale che andavano a comporre il complesso della città moderna del principe Marino II Caracciolo.

L’interesse di Antonio Di Nunno – proseguito e intensificatosi fino all’ultimo periodo della sua vita, quando aveva preso contatto con la Fondazione intestata all’architetto – si concentrava soprattutto nell’attenzione che Valle mostrava nella progettazione del verde urbano da rione Mazzini alla collina dei Cappuccini, individuando nella zona lungo il tratto ponte Ferriera-Santo Spirito del fondovalle Fenestrelle la linea degli insediamenti produttivi destinati ad artigiani e a piccole imprese e prevedendo la realizzazione dello stadio al termine del prolungamento di via Roma. Un dispositivo urbanistico che avrebbe posto un limite alle smanie di aggressione edificatoria alle colline circostanti dove si estendeva la proprietà delle famiglie della borghesia e dei ceti rurali le cui rendite erano state ingrassate negli anni del fascismo. Almeno per questo motivo il piano Valle sarebbe stato utile nel momento in cui la città di Avellino usciva dagli strazi della Seconda guerra mondiale e si avviava ad affrontare le urgenze della ricostruzione. Ma la previsione urbanistica dell’architetto romano scomparve. O fu volutamente considerata perduta nella polvere delle macerie.

Eppure, per recuperarla sarebbe bastato consultarne l’autore, il quale intanto partecipava alla redazione della legge quadro sull’urbanistica del 17 agosto 1942, la 1150, e accumulava incarichi e riconoscimenti in una carriera che l’avrebbe portato a diventare ispettore generale presso il ministero dei Lavori pubblici, occupandosi soprattutto di pianificazione e in particolare dell’attuazione del Prg di Roma del 1931 e degli studi dell’altro adottato nel 1962, a svolgere un ruolo di particolare importanza sulle vicende urbanistiche della capitale dal dopoguerra agli inizi degli anni ’60, a firmare lo strumento adottato nel 1959 e poi respinto dal ministero, a essere nominato membro e poi presidente di sezione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, al vertice dell’assemblea plenaria dal 1965 al 1967.

Insomma, la figura di Valle non era svanita nel nulla. La storia del suo piano può essere condotta nelle pieghe del giallo amministrativo, con il colpo di teatro che si verificò cinque anni dopo quando il suo piano a sorpresa ricomparve. Nel frattempo era stato però approvato il piano di ricostruzione postbellico che delle ipotesi di Cesare Valle conservò soltanto la parte destruens. Furono così cancellate le chiese di San Francesco e del Rosario in piazza Libertà assieme ad ampie sezioni di piazza Garibaldi e di via Nappi, dove le ruspe sarebbero intervenute ben oltre gli anni ’50 dopo il crollo della chiesa del Purgatorio. Uno sventramento vero e proprio, profondo e radicale ben più di quello causato dai bombardamenti del 14 settembre 1943 e relegava definitivamente l’altra immagine-manifesto dell’Avellino che fu – la veduta di piazza Libertà di Cesare Uva del 1850 – in una sempre più sbiadita cornice della memoria.

La storia del piano regolatore generale del 1933 ad Avellino ha molto a che spartire con quella che si sviluppa nel 1939 a Napoli. Qui lo strumento urbanistico fu il risultato di un importante lavoro svolto tra alcuni dei maggiori esperti dell’epoca – Giuseppe Cenzato, Francesco Giordani, Girolamo Ippolito e Luigi Piccinato – che produsse uno dei più interessanti prodotti della cultura del periodo. Il carattere distintivo del piano era costituito dall’intento di salvaguardare le zone collinari, conservandone la destinazione agricola e tutelandone così il valore paesaggistico ed ambientale. Esistevano tre copie degli elaborati, una all’Archivio di Stato, un’altra al Comune, la terza presso il ministero dei Lavori pubblici: una di queste venne manomessa, per permettere la costruzione di edifici nelle zone riservate al verde cambiando il colore delle tavole conservate in municipio.

Era stata però ignorata l’esistenza di una copia depositata a Roma e lasciata inalterata. La ritrovò Antonio Iannello, urbanista e ambientalista, anima di Italia Nostra e partecipe, accanto al sovrintendente Mario De Cunzo, al salvataggio di quel che rimaneva del centro storico di Sant’Angelo dei Lombardi dopo la catastrofe del 23 novembre 1980. Ne scaturì comunque un’accesa disputa che nonostante l’accusa del pubblico ministero durante il processo penale per falsificazione a opera di ignoti – “Il più clamoroso falso della storia giudiziaria italiana” – purtroppo vide due sentenze sfavorevoli al piano del ’39. Entrambe ignorarono il dettato della legge urbanistica del 1942, la previsione venne disattesa e già dal 1944 si iniziò a parlare dell’urgenza di un nuovo Prg, che sarebbe arrivato soltanto nel 1972. Napoli subì una vera e propria anarchia urbanistica, il sacco delle mani sulla città che avrebbe alimentato la denuncia civile nel film del 1963 diretto da Francesco Rosi e scritto assieme a Raffaele La Capria.

LA NOTTE DELLE LICENZE EDILIZIE

A Napoli i toni furono di un autentico e selvaggio assalto alla città, lo sfregio alla storica cartolina devastata nel suo profilo, marcando l’assetto urbano in maniera irreversibile. Ad Avellino gli avvenimenti successivi all’occultamento del piano Valle declinarono una sorta di speculazione a bassa intensità: un fenomeno silente e costante di erosione del paesaggio a contorno del nucleo urbano, l’immissione di insediamenti abitativi nella fascia collinare che sotto le vesti dei nuclei agricoli in realtà portavano alla consumazione del territorio disseminandolo di villette. Questa fase ha una data emblematica: il 31 agosto 1968. Allora si consumò la cosiddetta notte delle licenze edilizie. Distribuite, più che concesse, dal sindaco di allora, Angelo Scalpati, alla guida dell’amministrazione comunale dal 2 febbraio 1965 e sorretto da una maggioranza che si potrebbe definire milazziana, un pezzo di Dc, liberali, sostegni in aula del Msi e anche del Pci, che voleva spaccare l’area democristiana e finì per dividere se stesso.

La sua giunta approvò il Piano regolatore generale preparato da Marcello Petrignani, senza riuscire ad adottarlo, accumulando anzi un ritardo assolutamente colpevole e funzionale agli interessi furbi di proprietari dei suoli e imprenditori dell’edilizia. Vigente restava il piano di ricostruzione del 1949 che, con un regolamento edilizio addirittura risalente al 1877, assecondava le spinte speculative e le fortune della rendita fondiaria.

Tra il 30 e il 31 agosto 1968 scadeva il termine ultimo previsto dalla legge 765, cioè la legge ponte del 6 agosto 1967, per rilasciare licenze da parte dei Comuni sprovvisti di piano regolatore. Avellino l’avrebbe, sarebbe il Piano Valle, ma non si trovava. Il sindaco Scalpati, dunque, colse l’occasione per firmare ben 198 licenze edilizie in una cerimonia che platealmente si svolse nel Caffè Lanzara, di fronte a Palazzo De Peruta sede del municipio: una ottantina andarono a ricadere sulle aree che Petrignani aveva previsto nel suo piano per destinarle a strade, servizi e verde pubblico. Fu l’atto di nascita del disordine istituzionalizzato, della cementificazione tra il verde delle colline, della copertura del torrente San Francesco che attraversava la città fino al centro antico, la cosiddetta Collina della Terra: una parte ampia della Avellino del mini-boom che poggia su un fiumiciattolo tombato.

Il Piano regolatore di Petrignani venne adottato nel 1970. A operazione ultimata, insomma. Perché la città aveva già compiuto una totale torsione del suo sguardo, girando le spalle alla parte storica e rivolgendosi verso l’Ovest dell’area metropolitana napoletana. Il centro antico, la zona da via Nappi a Sant’Antonio Abate, dalla Dogana dei Grani al Castello, da Piazza Duomo a via Tedesco fino al quartiere della Ferrovia si ridussero a periferia degradata che conservava ancora i segni del bombardamento del 14 settembre 1943.

Sulle pietre dimenticate si affermò il paradigma dello sviluppo meramente edilizio di una città nuova che deponeva, o addirittura ignorava, ogni tentativo di riflessione e pensiero sulla funzione di sé, sul destino verso cui andare in un orizzonte più profondo di quello immediato, sulla dimensione – nel senso che proprio l’urbanistica conferisce - da assumere all’interno dell’Irpinia e della Campania. Si aprì la stagione sociale, economica e politica che esaltò il ceto del mattone e del cemento, il ceto largo che raccoglieva professionisti, tecnici ed imprenditori, tanto decisivo e influente da esprimere una trasversale e robusta classe dirigente. Non tanto dissimile, in fondo, dalla classe digerente che intanto drammaticamente Francesco Compagna segnalava a Napoli.

Antonio Di Nunno, consigliere comunale nelle file della Dc tra il 1975 e il 1980 prima di essere eletto sindaco per la prima volta il 7 maggio 1995, conosceva bene la storia della città di Avellino era un attentissimo frequentatore delle sue cronache. Democristiano sempre eretico, da Fiorentino Sullo aveva appreso la lezione innovatrice nell’amministrazione dell’urbanistica, lasciata come eredità civile dopo l’esperienza di ministro dei Lavori pubblici tra il 1962 e il 1963 nei governi di Amintore Fanfani e Giovanni Leone. In entrambi gli esecutivi Sullo aveva proposto una riforma urbanistica basata sull’esproprio preventivo delle aree fabbricabili, venendo sconfessato dal suo partito e volgarmente attaccato in una campagna di disinformazione nazionale promossa dal partito dei palazzinari. La proposta non venne approvata e Sullo si ritrovò a essere emarginato dalla vita politica dove pure si era imposto come il più giovane deputato all’Assemblea costituente, uno dei capi storici della Dc, il fondatore della corrente della Base. Nel 1964 lui ne raccontò la storia ne “Lo scandalo urbanistico, da cui emerse come “figura tragica ed emblematica della vicenda urbanistica italiana”: la definizione è di Vezio De Lucia, suo collaboratore al ministero. Sullo urbanista si mostrava una figura di riferimento, quasi un modello per Di Nunno, trasferendogli una concezione dell’urbanistica capace di produrre un sistema di norme e indicazioni tali da dettare un’idea regolatrice nella vita della comunità. Che – per calarsi nell’ambito locale – cancellasse i riti avellinesi di una gestione dell’urbanistica fatta di accordi e intese al ribasso, in una declinazione mediocre e spudoratamente conveniente del conclamato rito ambrosiano che a Milano aveva visto coniugarsi intessi pubblico e privato sul terreno della modernizzazione.

Alla latitudine irpina si erano celebrati, invece, obbrobri e pasticci. Ora, per Di Nunno, c’era da delineare l’opportunità prioritaria di metterci mano, di trasferire nelle pratiche amministrative e mille ragionamenti condivisi con Antonio Aurigemma e Federico Biondi, l’esponente del Pci avellinese, coscienza critica dell’urbanistica cittadina: immettere una quota di orgoglio nelle previsioni dei piani e di migliorare la qualità – prima della quantità – dell’abitare. Le condizioni di vita della comunità.

AVELLINO CITTA’ GIARDINO

La suggestione di Avellino Città Giardino, l’ambizione che unisce in un unico e omogeneo corpo le decisioni urbanistiche prese durante i due cicli amministrativi di Antonio Di Nunno – dal 7 maggio 1995 al 31 ottobre 2003 – era tutta in questo proposito. In una lunga e complicata operazione di riequilibrio degli spazi e dei volumi cittadini privilegiando l’opzione che aveva segnato la previsione di Cesare Valle e che, assai probabilmente, ne aveva causato l’occultamento. Per recuperare l’antica – e offesa – vocazione a città-paesaggio. Per conferire ad Avellino dignità urbana.

Occorreva aprirsi un percorso tra le macerie, metaforiche e reali. Questo era il destino di Avellino e Di Nunno volle ricordarlo nell’introduzione al volume curato nel 2001 da Giuliano Minichiello con le fotografie di Giampiero Monetti, Umberto Romito e Salvatore Viglietti, “Avellino Città Giardino”: “Se si osserva il campanile del Duomo colpisce la parte inferiore: un insieme di blocchi sovrapposti di epoca romana, messi uno sull’altro, in qualche caso non nel verso giusto, rovesciati. Quel basamento sta a significare che quel campanile, come tante opere antiche di Avellino, è stato realizzato probabilmente dopo qualche terremoto, quando qualcuno ha ripreso la riedificazione, ha ricominciato daccapo, come sempre ad Avellino. In quel caso c’era a disposizione quel materiale (forse già sulla collina del Duomo, forse preso nella circostanza dalla romana Abellinum). Quel basamento, a lungo nascosto sotto l’intonacato, ha per Avellino un grande valore simbolico. Avellino è sempre stata rifatta”.

Sempre alla ricerca di un nuovo ordine verso cui orientarsi, alla maniera dei Normanni. La conferenza urbanistica organizzata dall’assessore Domenico Fraternali il 24, il 27 e il 28 giugno 1996 dal titolo assai programmatico “Ripensare il futuro della città capoluogo” stabilì le premesse di merito e di metodo per tentare di ricucire – l’ennesima volta – Avellino. Individuava gli strumenti della partecipazione e del coinvolgimento, inaugurava un laboratorio permanente: problematico, complesso e sufficientemente tormentato, ma guardando con il distacco della distanza storica gli effetti del Piano Integrato Città di Avellino, il Pica approvato dalla Regione Campania nel 2002, e del Piano urbanistico comunale, il Puc firmato dallo studio di Augusto Cagnardi e Vittorio Gregotti vigente dal 2008, non si può non rilevare l’esistenza di un filo di continuità.

L’evidenza di una filosofia le cui premesse nascevano precisamente dalla volontà di fare i conti con la pagina nera disinvoltamente rimossa dell’urbanistica avellinese e di intervenire attraverso un principio riordinatore nella convulsa sovrapposizione dei piani. C’è un passaggio nella relazione di accompagnamento al Piano urbanistico di Cagnardi e Gregotti che la esplicita con chiarezza: “Attraverso il progetto è possibile riattribuire senso, trovare nuovi significati ai luoghi. Lo sguardo del piano sulla città identifica e riconosce quali luoghi speciali, quali luoghi di sedimentazione della nuova idea di città che il piano stesso persegue come obiettivo prioritario”.

Antonio Di Nunno, in quel testo del 2001 su Avellino Città Giardino, sintetizzava così il suo: “Il programma si muove su tre linee: la sistemazione a verde di aree dismesse o marginali (non poche), la trasformazione in parco pubblico del fondovalle Fenestrelle (120 ettari), un indirizzo urbanistico nuovo che privilegi il verde rispetto all’edificazione, e punti alla realizzazione di viali alberati e parchi agricoli. È una scelta la nostra che è a fondamento di un programma amministrativo essenzialmente puntato sull’ambiente e quindi prevalentemente sul verde pubblico. È una scelta particolarmente “capita” dall’opinione pubblica che probabilmente ha subito tradotto in un messaggio positivo ed in un obiettivo davvero raggiungibile una proposta dell’Amministrazione che invece gli addetti ai lavori fanno difficoltà a digerire”.

Questa preoccupazione, riportata nei toni leggeri del riferimento, si sarebbe invece concretizzata in un macigno contro cui l’intero programma – urbanistico, amministrativo, politico, civile – di Antonio Di Nunno avrebbe sbattuto, ribaltando l’ottimismo visionario nella delusione della sconfitta. Di Nunno dal 31 ottobre 2003 non fu più sindaco di Avellino, vittima di una congiura politica che riportò la città negli schemi angusti di un sistema politico e amministrativo ormai in agonia, pronto a deflagrare come sarebbe inesorabilmente poi successo.

Da quel momento il dibattito sull’idea di città, sulla pratica dell’urbanistica, sulla qualità da dare alla forma di Avellino arretrò in un deserto delle ambizioni: il Puc di Augusto Cagnardi e Vittorio Gregotti venne mortificato nell’applicazione di Piani urbanistici attuativi che ne distorcevano l’architrave portante, il Pica che aveva in dotazione risorse pubbliche per circa 90 milioni di euro fu smembrato, modificato, ridimenzionato nella sua portata. Avellino si richiuse in se stessa, riconnettendosi alle antiche liturgie che parevano rispecchiarsi in quel brano de “La speculazione edilizia di Italo Calvino – ancora lui – quando il protagonista Quinto Anfossi di fronte alle magagne sulla sua Riviera ligure pare arrendersi, ripetendo “Tanto che ci vuoi fare?” e ostentando la saggezza “di chi sa inutili le lamentele contro il moto della storia”.

LA SCONFITTA, L’ORGOGLIO E LA RABBIA

Antonio Di Nunno ebbe modo di elaborare la ferita. Evitò ogni postura della resa e scelse la sede giornalistica – la sua sede originaria – per riprendere voce. Indossò lo pseudonimo di Angelo Del Bosco e chissà se ritenne che il particolare nome de plumme con cui firmò gli articoli dedicati alle faccende urbanistica su “L’Irpinia” avrebbe rimandato al quadro di Paul Klee, all’”Angelus Novus” che Walter Benjamin pone in cima alla sua nona tesi di filosofia della Storia. L’Angelo che alla sineddoche del bosco suggerisce lo scenario della natura e del verde. L’Angelo della Storia che evocato da Benjamin “ha il viso rivolto al passato e dove a tutti appare una catena di venti lui vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”.

Di nuovo macerie e rovine. Ma comunque, anche nei suoi purtroppo ultimi contributi giornalistici, dominava la consapevolezza che la sola redenzione possibile fosse quella della memoria. Che non fa del ricordo “la reliqua secolarizzata” – diceva Benjamin –, la liturgia di un passato magari trasfigurato nell’invenzione posticcia: al contrario, la mette al lavoro, la dispone come un costante esercizio critico, la promuove a categoria interpretativa del presente, la rende un utile dispositivo cognitivo.

Antonio Di Nunno-Angelo Del Bosco tornò con energia polemica sulla questione di Avellino Città Giardino, il punto focale dell’intero disegno squinternato. I suoi articoli vanno a collocarsi lungo una linea di controcanto alla cronaca, puntualizzano aspetti e questioni che nella macina del quotidiano risultano polverizzati, richiamano all’attenzione gli aspetti centrali di un disegno urbanistico troppo in fretta liquidato come inapplicabile mentre era soltanto alternativo a quello per decenni vigente.

Tornò al proposito il piano di Cesare Valle. Il 12 ottobre 2013 si chiese: “Perché Avellino, città che tutti (ma proprio tutti) giudicano bisognosa di progettualità ed idee – progettualità leggera ed idee subito realizzabili – trascura, anzi respinge, soluzioni di questo tipo?”.

Quindi spiegò che il programma – “il pur chiacchierato programma – nel quale pochi credevano (giovani, intellettuali, imprenditori)” – prevedeva “con la formula della perequazione – l’acquisizione da parte del Comune del fondovalle Fenestrelle – per farne un parco”. Toccò qui un argomento ampiamente utilizzato da coloro che erano stati fermamente contrari all’impostazione del piano Cagnardi-Gregotti. Il principio della perequazione. “La “perequazione” vuol dire: io amministrazione acquisisco l’area – si parla di oltre 600.000 metri quadri – tu proprietario ottieni in cambio la possibilità di costruire, su aree già indicate, una piccola cubatura. Per la cronaca il Parco Santo Spirito – occupato da (troppi) impianti sportivi subito sfasciati per l’incuria e la mancata sorveglianza – fu realizzato sull’area già acquisita dal Comune agli inizi degli anni Novanta per insediarvi – secondo le previsioni del Prg aggiornato dall’architetto Petrignani dopo il terremoto del 1980.

L’area acquisita doveva essere destinata – come previsto anche nel Piano redatto durante il fascismo dall’architetto Cesare Valle – all’insediamento di quello che oggi chiamiamo Pip (Piano insediamenti produttivi: prevalentemente officine artigianali). Pip che non ebbe, intorno al 2000, l’approvazione della intanto nata Autorità di bacino. Fu da quel fermo no dell’Autorità di bacino che nacque l’idea di destinare il vallone Fenestrelle a parco pubblico – la “strada-parco” era già scomparsa per l’assoluta mancanza di fondi – al tempo stesso a difesa ed al servizio della città: il vallone del Fenestrelle accompagna Avellino per tutta la sua lunghezza ed un parco lungo tre chilometri è praticamente raggiungibile con facilità da quasi tutte le zone della città, ed è, nella parte finale (verso Atripalda) il punto dove confluiscono le acque dei torrenti che precipitano da tutte le colline che circondano Avellino”.

Proseguì: “Altra zona destinata a verde è il cosiddetto Campo Santa Rita, ovvero l’area oggi destinata a deposito dei bus, una volta continuazione della collina dell’Istituto agrario prima che a fine Ottocento su quei vigneti passasse l’attuale via Circumvallazione. Si dà il caso che su quell’area si preannuncino corposi interventi edilizi. La decisione fu presa, purtroppo, dai progettisti modificando una previsione concordata con l’amministrazione dell’epoca. E pensare che su una striscia di Campo Santa Rita doveva trovare posto soltanto la cubatura risarcitoria di quel poco di verde espropriato a qualche famiglia “intoccabile” per realizzare il parco del teatro (parco, chissà perché, scomparso dalla vista degli avellinesi). Altro che striscia lungo rampa San Modestino. Adesso si parla di ben tre edifici… Nei pressi, inoltre, rimane sempre un mistero la trasformazione di un giardino nel tetto di un parcheggio (dice il contrario lo spirito e la lettera della legge Tognoli: quell’area, realizzati i box, va destinata a verde e restituita, senza l’ignobile cancellata, ai cittadini)”.

Il 21 giugno 2014 svolse un ulteriore e utilissimo excursus storico: “Dopo il sisma dell’80 s’impose la revisione del Piano redatto da Petrignani. Previsione affidata allo stesso Petrignani che – senza gli obblighi dei decreti Galasso (si costruisce a 150 metri dalle sponde di fiumi e torrenti) – spostò il centro direzionale dal pianoro posto a ridosso della variante Sud alle spalle di via Colombo dove progettò anche l’autostazione e quindi a ridosso del torrente San Francesco, così come previde l’insediamento degli artigiani sulla parte del fondovalle Fenestrelle che va da Santo Spirito alla Puntarola.

Quest’ultima previsione fu cancellata per intervento della neonata Autorità di bacino. Così nacque la prima parte del Parco del Fenestrelle (la più grande, 65 ettari, che metterebbe Avellino in testa alle città europee per dotazione di verde, è da acquisire con il metodo della perequazione-compensazione ma né la giunta Galasso né la giunta Foti hanno mai lanciato segnali in tal senso). Ed è a questo punto che con la legge varata dal ministro Galasso (8 agosto 1985) scatta l’obbligo dei centocinquanta metri di distanza dalle sponde per poter costruire. Ma intanto ci sono già torri (questura, albergo, motorizzazione ed altro) realizzate in base al Piano Petrignani e che non rispettano le distanze previste dalla legge Galasso. Ed ecco che riflettendo sui termini di questa indagine ci viene di nuovo incontro il futuro. Basti pensare alla parte tombata del torrente San Francesco – dall’orrido insediamento posto tra via Colombo e via Tagliamento (ex zona ponte di Montevergine) fino al castello – per riflettere su quante brutture ci sarebbe da eliminare. A meno che la Soprintendenza, visto il mezzo secolo trascorso dalla loro edificazione, non apponga un vincolo di intoccabilità…”.

LA ROTTAMAZIONE NECESSARIA

“La città da rottamare. Dal dismesso al dismettibile nella città del dopoguerra” è il titolo del libro curato da Marina Dragotto e Giusi India, con una prefazione di Roberto D’Agostino, pubblicato all’inizio del 2007. Ragiona sulla città costruita nel dopoguerra e dopo oltre mezzo secolo giunta al limite dei propri standard di efficienza sociale, economica e ambientale, tanto da dichiarare con urgenza il bisogno di una globale rifondazione. Di una rottamazione. Vezio De Lucia, intrattenendosi ad Avellino dopo la presentazione avellinese di uno dei suoi volumi sui fatti e i misfatti dell’urbanistica, diede una sua risposta alla domanda che veniva da testo di Dragotto e India: su un foglietto disegnò tre cerchi concentrici, nel primo c’era la città storica, da tutelare in ogni modo, nel secondo la città realizzata negli anni ’60-’70 su cui intervenire quantomeno per adeguarla alle esigenze di sicurezza e abitabilità, nel terzo la città verde, cioè il suo ambiente naturale di verde che restava assolutamente intoccabile. Nel suo brano del 21 giugno 2014, Del Bosco-Di Nunno affrontò il tema immaginando di ripercorrere il tragitto lungo l’intero torrente San Francesco, trovandolo “incapsulato nel cemento armato” e soffermandosi eufemisticamente “ad “ammirare”” l’edilizia sorta lungo il suo percorso. Taglio corto: “Forse – o senza forse – l’impegno prossimo venturo dovrebbe essere proprio quello di rifare quella parte di Avellino”. La sua rottamazione di Avellino sarebbe dovuta partire da lì.

“Chissà quanti sanno che proprio dal ponte di Montevergine, in direzione Est, si prospettò – nei dibattiti in Comune, sia pure in conversazioni non proprio istituzionali, ed in commissione edilizia – l’ipotesi di una lunga striscia di verde che comprendeva il vuoto creato da pessimi imprenditori tra via Piave e via Guarini. Poi Piazza Kennedy, l’area davanti palazzo Santaniello dove una ignobile interpretazione della legge Tognoli ha consentito la realizzazione – parallelamente al torrente intubato – di box auto interrati senza neppure il “fastidio” di restituire l’area soprastante al Comune. La striscia verde poteva proseguire sull’area dove fu costruito il palazzo che ha poi ospitato l’ufficio Iva, e poi su campo Santa Rita dove oggi si vogliono costruire tre palazzi. Ed ancora l’area sottostante il parco del teatro, parallelamente a via Circumvallazione, ed infine una Piazza Castello per la quale l’architetto Cagnardi propose, tranne uno spicchio sotto il teatro, soltanto un bel prato. In Piazza Kennedy l’edilizia, per la sua mole, è difficilmente modificabile (tranne le facciate, il che non guasterebbe). Ma il resto non vale niente.

Come si fa a rottamare pezzi di città dove c’è il problema delle case di proprietà e tante altre questioni? Semplice: fermando l’espansione edilizia verso le campagne. Una secca e ferma riproposizione della “variante di salvaguardia degli ambiti fluviali e collinari” o anche del vincolo salva colline firmato nel dopo terremoto dal contestato soprintendente Mario De Cunzo. Si tratta, in sostanza, come adesso si dice, di non consumare neppure un altro centimetro di terreno e rifare invece il già costruito. Perequazione, compensazione, in alcuni casi anche cubatura in più, ma tutto secondo un progetto che riordina ogni cosa, crea finalmente verde, servizi e viabilità.

Siamo all’utopia? Già, ma chi avrebbe scommesso un centesimo nel dopoguerra sulla capacità di costruire – certo piena di difetti – una città nuova? Viviamo un momento magico che ci induce a rifare l’Italia. Ricominciamo dalle nostre città. Ed una volta tanto facciamolo noi di un’area interna del Meridione. Ed intanto aspettiamo con serenità lo sviluppo delle indagini della Procura che, per fortuna, pare stia volgendo lo sguardo anche su tutto il Fenestrelle (fogne e costruzioni). Non c’è niente di più bello ed alto che sconfiggere l’ossimoro “realizziamo un’utopia”. Lo dice da tempo anche Renzo Piano al centro, peraltro, di una delle tracce della prova d’italiano agli esami di maturità”.

Per altro, rottamazione a parte, nell’autunno 2013 era ritornata di estrema attualità la polemica sulla ristrutturazione di piazza Libertà. Un capitolo emblematico nella sofferta storia delle occasioni perdute. “Anche in questo caso c’è un misto di confusione amministrativa, di incapacità e di voglia di rimettere tutto in discussione. A cominciare dal concorso europeo su un progetto per la sistemazione della piazza. Piazza che non viene rivisitata da mezzo secolo quando – in altre condizioni sociali e con un traffico automobilistico contenuto – fu trasformata in un mix di rotatoria automobilistica e giardino pubblico (all’epoca molto apprezzato). Mezzo secolo dopo, in ben altro contesto, si pensò anche di correggere la distorsione cui Piazza Libertà costringe il notevole traffico automobilistico (Avellino è tra le prime dieci città italiane per intensità di spostamento dei veicoli: forse tutto nasce dalla forma filiforme della città e dall’essere il “largo” un tappo per le sette strade che vi confluiscono). Ed allora ecco il primo – tra il presuntuoso ed il gigantesco nonché piuttosto estraneo al mondo nostrano – tentativo del dopo terremoto: quello dello studio Zevi di Roma. Fu la prima volta, allora, che si cominciò a parlare di parcheggi interrati (due piani) ed una eccentrica interpretazione della piazza che a tutto si ispirava tranne che agli storici dipinti, disegni, foto venutici dai tempi che furono. Alla fine è venuto il concorso europeo che stava sprofondando nella disattenzione e nei ritardi. Il progetto vincitore, proposto da uno studio di Lucca, è molto originale. Trasforma la vecchia piazza di pietra in parco. Da quando questo progetto è stato scelto sul tutto è calato il silenzio. E vengono posti tanti problemi: il progetto abbassa il livello della piazza; il progetto non si raccorda a sua volta con il parcheggio interrato che è legato – sono soldi dei privati – al finanziamento pubblico per il tunnel (quando sarà completato per dire alla Regione che carte e conti sono a posto?). Ora si dà il caso che il sindaco si sia espresso contro il parcheggio interrato già in campagna elettorale ma non nelle sue dichiarazioni programmatiche di insediamento. Paura della Corte dei conti se i privati che dovranno realizzare il parcheggio dovessero spuntare un rimborso da parte del Comune? Ed il processo di pedonalizzazione di pezzi della città lo si attuerà fermando tutte le auto alle porte di Avellino?”.

Il fatto era che mobilità urbana e verde pubblico costituivano gli elementi su cui si fondava il programma Avellino Città Giardino e Angelo Del Bosco-Antonio Di Nunno il 14 settembre 2013 sottolineò: “Mentre si discuteva di come concretizzare molte previsioni ci pensò il terremoto del 23 novembre 1980 a rimescolare le carte e ad indurre gli amministratori del difficile e problematico dopo sisma ad una revisione del Prg. Si arrivò così al Petrignani-bis molto più permissivo sul fronte dell’edilizia privata e comunque rivisitatore di tante previsioni. Nuova e significativa fu l’ipotesi di prevedere una nuova stazione ferroviaria in coincidenza con la prevista autostazione. La stazione avrebbe dovuto essere il terminale della linea ferroviaria diretta Napoli-Avellino (con percorso lungo il Vallo di Lauro e traforo sotto il valico di Santa Cristina), un’idea anche in precedenza sempre stupidamente respinta dai politici che contavano in Irpinia”.

QUEL CHE RESTA

La stagione di Antonio Di Nunno ha avuto l’intensità emotiva capace di mobilitare intelligenze e passioni. Sotto questo aspetto, il cosiddetto dinunnismo è stato un sentimento autenticamente popolare, che ha risvegliato le virtù deposte della dignità, dell’orgoglio, dell’ambizione ha provato a riversarne la sostanza in progetti amministrativi. Ha trovato posto nella primavera dei sindaci, negli anni che portarono nei municipi d’Italia Antonio Bassolino a Napoli, Francesco Rutelli a Roma, Valentino Castellani a Torino, Massimo Cacciari a Venezia, Riccardo Illy a Trieste, Leoluca Orlando a Palermo: il dinunnismo è stato innescato da un vento politico favorevole al quale, comunque, ha fornito la forza e l’energia di idee ed esperienze che venivano da una media città del Sud interno. I dibattiti e i confronti sviluppati all’interno dell’Associazione nazionale dei comuni d’Italia, dove Di Nunno ricoprì con autorevolezza riconosciuta incarichi apicali, ne sono la testimonianza.

Certo, ci sono stati errori, si è caduti in sottovalutazioni, non sempre si è calibrato lo strumento per cogliere gli obiettivi fissati. Ma tutti i tentativi messi in atto sono stati tesi unicamente a migliorare le condizioni di vita della città di Avellino, modernizzandola senza far svanire i tratti identitari della propria storia: per conquistare un suo vero protagonismo nella ridefinizione degli equilibri regionali e meridionali. L’urbanistica ha rappresentato il terreno privilegiato dove individuare e verificare la densità del progetto amministrativo di Antonio Di Nunno.

 

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