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    22/07/2024

Le accuse a Palatucci? «Un’operazione subdola»

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Giovanni PalatucciRichiesto di una valutazione, da biografo, su Giovanni Palatucci, mi è venuto di paragonare - con La Stampa - questa campagna di fango postumo contro di lui al negazionismo dell’Olocausto. Non ho cambiato idea, nel frattempo. Per accanimento e sprezzo del pericolo vedo in maniera speculare lo stesso atteggiamento cinico (basti solo pensare che la persona accusata di essere collaboratrice dei nazisti è morta per mano dei nazisti stessi in campo di concentramento a Dachau) e la stessa intenzione di modellare la storia secondo le proprie visioni ideologiche.

Questa campagna, va subito spiegato, è il frutto di due moventi che si saldano. Il primo è impersonato dallo storico triestino Marco Coslovich che, avendo forse scarsa considerazione della sua esistenza, ha deciso di fare della demolizione di Giovanni Palatucci uno scopo di vita. Un movente, il suo, che fa riferimento alle irrisolte contese italo-croate che gli storici veri sono in grado di affrontare senza tagliare la verità con il coltello, il male tutto da una parte, il bene tutto dall’altra. Si sa infatti che le autorità italiane si resero autrici di comportamenti gravemente repressivi nei territori giuliano-dalmati verso la minoranza sloveno-croata, si sa pure, però, che l’orrida ritorsione furono le foibe e l’esodo umiliante degli italiani. L’altro movente, saldatosi negli Stati Uniti (dove Coslovich si è portato dopo non aver trovato nessun riscontro in Italia ai suoi attacchi) è invece l’avversione di una componente della galassia ebraica alla figura di Pio XII che, attraverso l’operato di un cattolico come l’ex questore reggente di Fiume e soprattutto attraverso lo zio Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, trova nuovi argomenti a favore. Basti solo pensare ai numerosi documenti conservati in copia a San Francesco a Folloni che attestano – caso unico – dei finanziamenti inviati dal Pontefice in persona con messaggi motivati al campo di internamento di Campagna, attraverso il vescovo, attivissimo nell’opera di assistenza agli ebrei.

L’operazione è subdola. Non bisogna dimenticare che a Fiume la causa italiana ha perso, e la storia, come sempre, la scrivono i vincitori. In questo caso provano a riscriverla. Aprendo gli archivi ad altri inaccessibili – brutta storia quando il materiale viene messo a disposizione solo degli studiosi compiacenti – a Rijeka, come oggi si chiama Fiume, è stata trovata una realtà molto diversa da quella raccontata in questi anni dai testimoni. E ci mancherebbe. Ci mancherebbe che Palatucci avesse lasciato traccia scritta del suo operato. Se non avesse avuto una grande prudenza nel portare avanti un doppio registro operativo certo ci sarebbero voluti meno di 7 anni per smascherarlo. Risibile, a nostro avviso, l’argomento che sia stato un funzionario della Repubblica di Salò visto che in questura non potevano certo operare degli abusivi. Ma non meno risibile è l’argomento della sua collaborazione con i nazisti. Una collaborazione che, a spulciare persino le lettere pubblicate dai suoi detrattori, diventa persino eroica. Perché lui, in realtà, non fece altro che tenere testa ai tedeschi (che avevano istituito il litorale Adriatico in tutta la Venezia Giulia e la Croazia, retto da un governatore tedesco) cercando di schivarne le diffidenze e di vincere le delazioni della milizia fascista irregolare che aveva come scopo principale quello di denigrare l’operato della questura italiana, con l’obiettivo di prenderne il posto.

Mi raccontava qualche giorno fa Rocco Buttiglione che suo padre - commissario di polizia a Zagabria, nella Dalmazia occupata dall’esercito italiano - aveva molta ammirazione per Palatucci non solo per la sua attività a favore degli ebrei ben nota fra i funzionari dei vari corpi operanti in quel territorio, ma anche per il suo coraggio – che suo padre non ebbe – di restare lì anche dopo l’armistizio, quando tutte le circostanze consigliavano di far rientro in Italia. Perché, fra i tanti elementi che si combattevano in quel territorio (gli ustascia filo-nazisti, i partigiani comunisti di Tito, e i nazisti) c’era il comune interesse a far fuori l’elemento italiano, che aveva nella questura di Fiume l’ultimo avamposto, mentre la prefettura era di fatto già “venduta” ai tedeschi che vi si erano acquartierati, dopo i fasti di Gabriele D’Annunzio. Non a caso qualificati giornalisti locali dell’epoca e storici di vaglia come Francesco Barra accreditano la tesi che l’arresto di Palatucci sia stato il frutto di una spiata dei Titini ai “nemici” tedeschi. E basti solo pensare che se il “filo-nazista” Palatucci finì a Dachau, i suoi agenti che aveva protetto fino all’ultimo finirono, invece, terminata la guerra, vittime delle foibe, l’orrore opposto che con tutta probabilità avrebbe inghiottito lo stesso commissario irpino se avesse schivato l’insidia tedesca.

Uno scenario di guerra, insomma, che però ci aiuta a spiegare perché i numeri dei salvataggi di Palatucci poterono essere così alti, e che ci aiuta a demolire come risibile anche l’ultima accusa. Come può aver salvato 5mila ebrei se in quel territorio ne risiedevano meno della metà, ci si è chiesti?  Si dimentica, oppure si finge di dimenticare più probabilmente, che a un certo punto la giurisdizione della Provincia di Fiume si spinse fino ai territori occupati dall’esercito italiano in Dalmazia, dove tre o quattromila ebrei rimasero accampati per lungo tempo, e altri, a migliaia, sfuggendo a ogni controllo o censimento, “probabilmente decine di migliaia”, attesta il professore Barra, si misero in fuga sull’onda dell’avanzata tedesca nei Balcani, anche per sfuggire al terribile regime degli ustascia.

Ora, se il problema fosse obbedire al dettato dello Yad Vascem, che definisce Giusto chiunque abbia salvato anche un solo ebreo, Palatucci sarebbe bello che a posto, avendo fra testimonianze scritte e verbali a suo favore  gli attestati di alcune decine di famiglie. Si potrebbe dunque rinunciare alla cifra (5mila) che sembrava ormai passata in giudicato sui suoi salvataggi, senza per questo scalfire la sua figura. Sennonché, dire del commissario di Lampedusa che ha accudito un immigrato o poche decine potrebbe comportare il sospetto che ne abbia lasciati perire in mare alcune decine di migliaia. Ed ecco, quindi, per Palatucci (commissario dell’ufficio stranieri di Fiume per 7 anni e poi questore reggente) affiorare un’insidia in più, utilizzata dai detrattori in malafede: il balletto delle cifre. Fingono di dimenticarsi del cosiddetto canale fiumano (la via di fuga, attraverso il mare, di migliaia di ebrei in fuga dai territori balcanici) attestato da tanti storici autorevoli e che mi è stata confermata da tanti testimoni. Il più importante è Giuseppe Veneroso finanziere al confine che viveva a Prato, ma era originario di Pisciotta, che mi ha raccontato come con un gruppo di giovani finanzieri (fra cui un Picariello di Avellino, di qui una certa benevolenza istintiva nei miei confronti) erano impegnati alla frontiera, sotto la regia operativa di Palatucci, a lasciare passare questi ebrei che arrivano con ogni mezzo, non di rado con l’ausilio di eroici militari italiani compiacenti, sempre in rete con Palatucci. Un’opera che andò avanti per circa due anni, fino all’armistizio, mi ha raccontato per la prima volta - che poi è stata anche l'ultima - nel libro che ho scritto per la San Paolo Capuozzo, accontenta questo ragazzo - La vita di Giovanni Palatucci. Lo stesso Buttiglione mi ha riferito dei racconti di suo padre, e cioè che fra i funzionari italiani nei territori occupati era parola d’ordine diffusa che questi ebrei bastava che li si lasciasse arrivare a Fiume perché li poi ci avrebbe pensato Palatucci.

E i documenti? Non ci sono, non vi affannate, perché Palatucci semmai li distruggeva o li falsificava, come ad esempio è avvenuto con i genitori di Renata Conforty che oggi vive a Roma, ma che non sarebbe mai nata, e neanche i suoi figli, se Palatucci non avesse finto di fermare i suoi genitori in stazione a Fiume trattenendoli per una notte in questura, per poi fornire loro all’indomani una falsa identità. Storie che si aggiungono a quella di Elena Aschkenasy, che valse a Palatucci il titolo di Giusto. Ma vien da chiedersi come sia possibile, 50 anni dopo l’invito dello zio vescovo in Israele a Ramat Gan per ringraziare attraverso lui il povero nipote, rimettere tutto in discussione, da parte di un centro studi ebraico? Non mi meraviglierei, però, come già sta accadendo su Internet, che possano spuntare altri racconti su altri salvataggi, ad opera dei discendenti, a contribuire a rimettere le cose a posto, sull'onda dell'indignazione per questa campagna diffamatoria.

Nel frattempo ricordo agli irpini che mettere in discussione questa grande storia significa mettere in discussione l’opera anche di altri grandi irpini, come l’agente avellinese Americo Cucciniello, che Palatucci usava per le missioni più difficili, o come il commissario montemaranese Raffaele Ricciardelli, suo referente a Trieste, commissario dell’ufficio politico finito anche lui a Dachau, riuscendo miracolosamente a scampare. Ma significherebbe anche colpire la memoria di due grandi avellinesi. Come Goffredo Raimo che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita per far uscire dall’oblio questa figura. E come Antonio Manganelli che nel piglio democratico con cui ha guidato la Polizia ha sempre indicato nel suo conterraneo Giovanni Palatucci il suo modello.

 

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