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    03/07/2024

Le lettere di Mancini a Garibaldi per convincerlo ad accettare la pensione

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Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Garibaldi e Giovanni NicoteraOltre che rapporti attribuibili alla natura di uomini pubblici, Pasquale Stanislao Mancini e Giuseppe Garibaldi ebbero rapporti di fiducia e relazioni amichevoli, come emerge dalla corrispondenza depositata presso il fondo Mancini e inviata da quest’ultimo all’eroe dei due mondi.  Diversa ovviamente la natura della corrispondenza, da lettere di saluti o per occasioni mondane a note di maggior interesse storico. Quattro di queste ultime sono in corso di pubblicazione, a cura dello scrivente, sulla rivista Vicum, di prossima uscita.

Esse sono relative a momenti diversi della vita dei due uomini e dell’Italia. La prima, datata 29 marzo 1863, si riferisce alla rivolta della Polonia del 1863 e agli sforzi di dar vita ad iniziative di aiuto al popolo polacco, considerato compagno di sventura di quello italiano per le comuni vicissitudini di popoli oppressi e per le condivise speranze di liberazione dalla tirannide straniera. Allo scoppio della rivolta, Garibaldi era immediatamente diventato punto di riferimento delle diverse iniziative di aiuto, ma anche dei tentativi finalizzati a portare utile alla causa italiana, come, tra gli altri, “una spedizione in Veneto che avrebbe al contempo allentato la pressione sugli insorti, garantito Venezia all’Italia e dato il via ad una serie di rivolte europee, in particolare in Ungheria e nei Balcani”. Speranze e progetti destinati tuttavia a rimanere inattuati. Così, quando Mancini scrive a Garibaldi, il 29 marzo del 1863, è soprattutto per manifestargli la delusione per la scarsa prontezza delle scelte italiane: “Quali saranno – si chiede infatti tra l’altro – le occasioni propizie nelle quali l’Italia potrà ancora rimettersi nella interrotta via della sua nazionale impresa?”

La lettera del 1 ottobre del 1875 riguarda invece la vicenda della realizzazione dei lavori per il Tevere nella città di Roma per i quali Garibaldi si impegnò notevolmente, nutrendo, tra l’altro, la volontà “di mostrarsi uomo e condottiero anche di imprese di pace”, invogliato dall’ «ambiente della democrazia romana, che pone[va] al centro delle sue battaglie la prospettiva dell’espansione edilizia e del risanamento economico della Capitale e della sua campagna…, mentre  risorge prepotente in lui, nel rimetter piede nella città bramata, la fede in una missione mondiale di Roma, esempio di civiltà e di progresso, “culla della unione dei popoli”».  L’opera impegnò Garibaldi su due fronti: la progettazione e la ricerca di finanziamenti con il coinvolgimento di operatori e di società di livello internazionale. Probabilmente proprio a questa fase si riferisce la lettera di Mancini – il quale sembra avere nell’iniziativa di Garibaldi un ruolo tutt’altro che secondario – inviata per avallare l’iniziativa di un tale Joubert, rappresentante di una società francese. “Posso assicurarvi - scrive Mancini - che il Joubert è una vera potenza finanziaria, e che la Societè des Travaux Publics da lui rappresentata ha intrapreso e compiuto in vari paesi d’Europa grandiose opere pubbliche e certamente, laddove s’incaricasse dei lavori del Tevere, sarebbe in grado di prestare ad essi un utile e ben importante concorso”. Com’è noto, l’impegno di Garibaldi non fu risolutivo per i lavori del Tevere, al punto che  dal 1876 smise di occuparsene. Infatti, “negli ultimi mesi del 1876, …già da un po’ di tempo i grossi nomi del capitale internazionale han capito che l’affare non sarà né buono né realizzabile, e anche gli amici italiani di parte democratica l’han lasciato solo”.

Sicuramente più curiose le vicende a cui si riferiscono le altre due lettere, inviate da Mancini a Garibaldi, rispettivamente, il 29 novembre del 1874 e il 12 gennaio del 1878. La prima delle due riguarda un momento particolare della vita di Garibaldi, il quale, ritiratosi sull’isola di Caprera, nel 1874 stava attraversando un periodo di gravi difficoltà economiche. Il proposito di sfruttare le risorse naturali dell’isola o di trarre profitti da alcune iniziative editoriali non aveva dato i frutti sperati con la conseguenza di ridurlo quasi all’indigenza. La fama mondiale del personaggio tuttavia aveva dato pari risalto alla sua condizione, attivando una gara universale di solidarietà alla quale ovviamente non poteva sottrarsi l’Italia. Non era possibile per gli italiani e la propria classe dirigente, dinanzi al mondo intero, tollerare o rimanere indifferenti all’idea che fossero gli stranieri a fornire aiuto a Garibaldi che tanti servizi aveva reso alla Patria. Così, fu proprio Mancini, primo firmatario, il 26 novembre 1874, a presentare, insieme ad altri “cento deputati della sinistra”, un progetto di legge per concedere a Garibaldi una rendita vitalizia di 50 mila lire ed una pensione vitalizia di uguale importo.

“Stanno scolpiti nel cuore e nella coscienza di ogni onesto italiano la parte meravigliosa ed eroica presa da Giuseppe Garibaldi - disse Mancini - al risorgimento d'Italia, con i servizi da lui resi alla grande opera della sua indipendenza ed unità; lo spettacolo sublime, che da quattordici anni offre alla sua patria e al mondo di una vita di abnegazione e di volontaria povertà, dopo aver avuto a sua disposizione i tesori di due Regni, ed infine il dovere sacrosanto che ha l'Italia verso sé stessa e la propria dignità di nazione, di compiere assolutamente un atto degno di chi lo fa e di chi ne è l'oggetto, e per respingere l'apparenza odiosa di essere madre immemore ed ingrata di tanto figlio, e di lasciare alle nazioni straniere il compito di accorrere con generosa gara a dimostrare il loro simpatico culto a così eccelso grado di virtù, ed a pagare il debito d'onore del popolo italiano. Queste verità si sentono, non si dimostrano".

Garibaldi reagì  in maniera sdegnata alla notizia affrettandosi a far sapere a Mancini, tramite il figlio Menotti, che era sua intenzione rifiutare il dono per il motivo principale, tra gli altri, di non volersi compromettere con il governo della destra, guidato da Minghetti. “Questo governo - infatti, mandò a dire Garibaldi - la cui missione è d’impoverire il Paese per corromperlo, si cerchi complici altrove”. Allo scopo di non veder vulnerata l’iniziativa sua e del Parlamento, Mancini scrive a Garibaldi la lettera del  29 novembre del 1874 chiedendogli almeno di non rendere pubblico il suo rifiuto: “Voi avete certamente il diritto di vivere da eroe - così Mancini - ma non potete né vorrete costituire la Nazione Italiana, alla quale appartenete, nella chiara necessità di comparire al cospetto del mondo immemore ed ingrata; non vorrete imprimere nella fronte della Patria vostra un marchio di vergogna…”.

La proposta fu approvata con 25 voti contrari (votarono contro alcuni cattolici). Ciò che tuttavia sbloccò lo stallo fu l’avvento al governo della sinistra. Nel 1876, infatti, sopratutto per l’opera di persuasione di Mancini, divenuto in quel governo ministro di Grazia e Giustizia, e di Nicotera, ministro dell’Interno, Garibaldi accettò il dono, attirandosi le critiche feroci dei repubblicani. Qualcuno lo definì “un pensionato della Corona”. Persino sotto all’autografo con cui Garibaldi scrisse al giornale La Capitale per rendere pubblica la sua gratitudine, qualche anonimo scrisse: “Siamo in grado di assicurare che il Generale venne indotto a questa risoluzione dai Ministri Mancini e Nicotera. Non diremo se il Generale abbia fatto bene o male: non diremo nemmeno se gli On. Mancini e Nicotera abbiano reso o no un servizio alla fama di Garibaldi. Sarebbe inutile. Ci limitiamo ad annunciare il fatto lasciando ad altri per ora la cura di apprezzarlo.”

L’ultima lettera è forse la più interessante. Essa fu scritta a Garibaldi il 12 gennaio del 1878, tre giorni dopo la morte di Vittorio Emanuele II, nel  momento in cui tutta l’Italia piangeva la scomparsa del re, di uno dei principali protagonisti dell’epopea risorgimentale. Mentre la nazione italiana rendeva omaggio a colui che era riuscito nell’impresa, sia pure non ancora del tutto compiuta, dell’unificazione, Garibaldi rimaneva tacito,  in un silenzio stridente. Colui che faceva parte, insieme al defunto re, di quella che fu definita una “generazione dei giganti”,  indugiava in un atteggiamento di pericolosa indifferenza che poteva lasciar spazio a dubbi e paure nel momento in cui l’impianto unitario, ancora in erba, correva il maggior rischio di crisi. Fu probabilmente per tutti questi motivi che Mancini, il 12 gennaio del 1878, ritenne di scrivere a Garibaldi per chiedergli,  in un momento cruciale per l’Italia, di far sentire la sua voce, di  pronunciare “una parola ispirata dal cuore”, allo scopo di “consolidare con la nostra concordia l’edifizio nazionale e le pubbliche libertà”. La lettera di Mancini al generale, se da un lato rivela un forte amor di patria dell’irpino, dall’altro dà anche la misura dei rapporti tra Garibaldi e Mancini, facendo emergere per quest’ultimo un significativo ruolo fiduciario.

 

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