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    03/07/2024

Come non scrivere la storia locale

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Montefusco in una stampa del Pacichelli e, sotto, una veduta di Santa Paolina oggiLe ricerche sul passato di una città, di un paese, o di una regione sembrano alla portata di tutti e sono molti coloro che vi si cimentano con alterne fortune, benché solo pochi siano all’altezza di affrontare tematiche che si prestano al campanilismo, alle esagerazioni, alle errate interpretazioni dei documenti antichi e agli eccessi di presunzione, per cui l’ultimo arrivato crede di essere il primo e colloca il proprio paesello al centro dell’universo, senza alcun riguardo per chi ha sudato su antiche carte e non s’è fatto trascinare dal facile entusiasmo dei pivelli o dall’amore miope per il “natio borgo”.

Qualcuno può avere l’impressione che le considerazioni suddette siano vaghe affermazioni di principio, o che si riferiscano a ricercatori di oltre cento anni or sono, che pure ebbero dei meriti innegabili per avere fatto uscire dall’oscurità dell’oblio centri o personaggi, meritevoli di ben altra considerazione. Le presenti riflessioni riguardano invece una recentissima pubblicazione che s’intitola Compendio Santa Paolina Madre-Civitas Montefuscoli. Si tratta del primo volume di Isacco Luongo, stampato da Per Versi Editori, nel 2013 e presentato a Santa Paolina il 23 giugno scorso. Il volume in oggetto si compone di 352 pagine, cui segue un inserto dello stesso autore, intitolato Montefusco: fatti & misfatti e contenuto in altre 96 pagine. Partiamo dal predetto “inserto” per alcune deduzioni che sembrano ovvie. Il predetto Luongo si avventa, quale “cavaliero antiquo” con la lancia in resta contro Montefusco e gli storici locali, che, più o meno unanimemente, hanno considerato questa cittadina “capitale” del Principato Ultra dall’epoca angioina al 1806. A detta del suddetto autore, non bastano la presenza della Regia Udienza, della truppa e del carcere per assegnare a Montefusco il ruolo di capoluogo; ma, di grazia, quali altri uffici erano presenti altrove e quale di essi è determinante per individuare il capoluogo di una realtà territoriale che somigliava solo in parte alle province odierne? La stessa Conza, che il Luongo, sulla scia di testimonianze poco attendibili ed estranee al contesto, ritiene capitale del Principato Ultra, era soltanto sede arcivescovile e nient’altro; ciò sia detto con tutto il rispetto per la sua storia ragguardevolissima fino all’età normanna e oltre; d’altra parte, Conza era in una zona marginale rispetto alla provincia e  lontana da Benevento più di quanto scrivesse una fonte cara al Luongo (secondo un’enciclopedia francese del 1803, citata dal predetto, Conza disterebbe  da Benevento 12 (sic!) miglia); in realtà, Conza dista da Benevento oltre 18 miglia in linea d’aria, mentre con le strade odierne i chilometri sono circa ottanta.

Prima di ogni ulteriore considerazione e di passare alla prima parte del volume conviene annotare che non sono sufficienti le affermazioni e le prove addotte dal Luongo a far nascere qualche dubbio negli addetti ai lavori, o nei tanto disprezzati storici locali, sul  ruolo ricoperto da Montefusco per secoli; sembrano più di buon senso il rispetto per le convinzioni altrui e la consapevolezza che le argomentazioni e le deduzioni, più o meno fondate, sarebbero più accettabili, se fossero frutto di un ragionamento calmo ed equilibrato ed accompagnate da un pizzico di umiltà e da qualche dubbio sulle proprie certezze. Del resto, Santa Paolina ha avuto una storia più che dignitosa da “casale” del capoluogo del Principato Ultra, ma l’essere stata casale di un carcere o di un “patibolo a cielo aperto”, non ne accresce la gloria, ma piuttosto la deprime.

La prima parte del volume, la più sostanziosa ed anche la più accettabile, presenta una ricerca di documenti relativi a Santa Paolina, eponima del paese, e a San Felice. L’autore preferisce riportare letteralmente i testi del Baronio e del Bosio, scrittori benemeriti e pazienti ricercatori con tutte le argomentazioni che ritiene necessarie per districarsi tra le varie ipotesi degli agiografi del Cinque-Seicento e quelle di autori più vicini a noi. Le prime cento pagine dell’opera, quelle relative ai due santi sunnominati, sono quelle che si leggono con interesse e profitto, in quanto il Luongo segue una certa linea guida e presenta le ragioni che documentano e giustificano il culto di Santa Paolina e di San Felice.

Da pagina 113, da quando iniziano i “cenni geologici e storici su Santa Paolina”, l’autore discetta sulle ere geologiche con lo sguardo sempre fisso sul paese natio e sul suo territorio, che diventano l’ombelico del mondo. Ciò è ovvio in chi scrive delle proprie radici, ma non giustifica il peso eccessivo dato a qualche studioso (anch’egli “locale”), solo perché menziona Santa Paolina. D’altra parte, pare offensivo per il “padre della storia”, Erodoto, chiamarlo sempre “Erotodo”, mentre si fa violenza ai documenti, alla toponomastica e alla storia di un personaggio eclanense, Marcus Magius Surus (Surus = Sirus), storpiandone il cognome in Saurus per avventurarsi in elucubrazioni etimologiche e nobilitare la toponomastica di qualche contrada di Santa Paolina; anche in questo caso, il fine non giustifica i mezzi.

Si deve riconoscere al Luongo il merito di aver riportato nel testo originale passi di autori antichi, altrimenti difficilmente leggibili da chi non possiede una biblioteca ben fornita. Anche in questo caso però, analogamente a quanto si riscontra per il passo dell’Eneide relativo alla Mefite e ai supposti fenomeni vulcanici, si nota che le edizioni dei classici citate sono tutte sei sette ottocentesche e per nulla critiche, per cui i commentatori di quell’epoca scrivono  “Arpini” al posto di “Irpini” e Minato Magio, invece che “Aeculanensis”, diventa “Asculanensis”. Evidentemente al nostro sfuggono gli errori dovuti ad amanuensi ignoranti di topografia storica, capaci di confondere, talvolta il numero X col V negli itinerari ed egli non tiene conto che Tito Livio  non conosceva i luoghi nei quali inseriva la narrazione delle guerre contro i Sanniti.

Pare innegabile che il Luongo preferisca gli studiosi settecenteschi a quelli contemporanei; lo si osserva anche nello stile, nella foga polemica e nella presentazione di una mole enorme di materiale e di argomentazioni, quasi del tutto estranee agli autori odierni. Un’ultima osservazione concerne le valutazioni su fatti e persone che riguardano la vita religiosa di Santa Paolina negli ultimi 50 anni; all’autore sembrano grandi, meritevoli di elogi e che abbiano avuto sempre ragione i pastori d’anime suoi compaesani. Talvolta, un po’ tutti, dimentichiamo che vanno sentite le due campane, coscienti che non si arriva comunque con certezza alla verità vera.

Qualche lettore di queste annotazioni storcerà il naso nel leggere le osservazioni sollevate dallo scrivente nei riguardi del testo del Luongo, ma tenga presente che il libro in oggetto può essere paragonato ad un torrente in piena che trascina con violenza tutto ciò che incontra dopo un temporale estivo. A fenomeni del genere si rimedia con opportuni e robusti argini, in previsione di temporali futuri, che il suddetto autore fa intravedere.

Comunque il presente articolo, ammesso che il Luongo lo legga, è un invito alla prudenza, all’umiltà, alla modestia e al rispetto. Col suo testo, cui si sta facendo qui pubblicità del tutto involontaria, il Luongo dimostra l’esatto contrario, per cui il suo motto (riferito agli storici irpini) “non bisogna cambiare la storia, dobbiamo cambiare gli storici” vale innanzitutto per chi lo ha formulato, a meno che non sia sorto un nuovo Tucidide o che, senza che nessuno se ne sia accorto, sia rinato Theodor Mommsen.

 

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