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    03/07/2024

La lotta al brigantaggio postunitario nel «terribile» Vallo di Bovino

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Una veduta di GreciGRECI - Il brigantaggio nell’Italia meridionale ha radici antiche come le radici del sottosviluppo economico, civile e sociale. È la fame di terra sofferta da grandi masse di contadini in vaste aree del Mezzogiorno, causata in parte dall’agricoltura estensiva o di latifondo che dominava in tante regioni. Sono l’oppressione sociale e lo sfruttamento economico esercitati dalla nobiltà fondiaria di tipo feudale e successivamente dalla grande borghesia agraria. È la soluzione o non-soluzione della questione demaniale che viene alla ribalta della storia sociale del Sud nel secolo decimonono.

Le grandi crisi politiche della società meridionale determinano le grandi esplosioni del brigantaggio. Il dato di partenza fondamentale è costituito dal fatto che nel 1860 nella società meridionale si produce un processo rivoluzionario. Questo provoca il crollo della vecchia dinastia borbonica che non ritornerà più sul trono, a differenza delle precedenti crisi. Questo crollo è determinato da un urto che in parte proviene dall’esterno e in parte viene dall’interno. Viene dall’esterno con l’impresa dei Mille di Garibaldi che erano ben 50.000 all’epoca del Volturno e di cui circa i tre quinti erano volontari meridionali.

Il colpo dall’interno viene sferrato dalle insurrezioni locali dei liberali unitari meridionali. Con la crisi del 1860 si verifica una grossa frattura fra le classi dominanti meridionali. Sul piano politico si apre una partita a tre fra le maggiori forze politiche. Da un lato, i liberali moderati cavouriani raccolti intorno alla monarchia sabauda e che disponevano del governo, della diplomazia e dell’esercito. Essi erano i rappresentanti politici della grande borghesia agraria e dei primi nascenti nuclei dell’industria e della finanza e perseguivano nel Mezzogiorno gli obiettivi fondamentali di annettere e di unificare l’ex regno, reprimendo il disordine. Verso i contadini adottarono subito una politica repressiva sproporzionata. Dall’altro, i liberali democratici, cioè i repubblicani mazziniani, i garibaldini e i repubblicani federalisti. Erano i più decisi a lottare per l’indipendenza e per l’unità d’Italia mettendo in rilievo che nel Mezzogiorno l’ordine non poteva essere ristabilito solo con la repressione armata ma che era necessario dare la terra ai contadini quotizzando i demani comunali e i beni ecclesiastici. La terza grande forza era costituita dai fautori della rovesciata dinastia borbonica e cioè, in grande maggioranza, dalla nobiltà fondiaria latifondista, il clero e la massa degli stipendiati della ex-monarchia. I Borboni dopo aver tentato la resistenza dovettero abbandonare il campo e ripararono a Roma e di là tentarono di soffiare sul fuoco della rivolta anti-unitaria. Il clero meridionale si era spostato su posizioni reazionarie specie dopo i famosi decreti Mancini, che decretavano lo scioglimento degli ordini monastici, l’incameramento dei beni ecclesiastici e l’abolizione del concordato del 1818.

Da questa situazione politica emerge evidente l’esistenza di una profonda frattura fra le classi dominanti nel Mezzogiorno. Nell’inverno 1860-81 in tutto il Mezzogiorno continentale cominciarono a dilagare delle sommosse che nei centri minori vennero spesso brutalmente represse e la repressione provocò la fuga dai centri abitati degli elementi coinvolti che riparavano nei boschi e sui monti dove già si andavano formando vere e proprie bande aggregandosi attorno ad ex militari borbonici e a vecchi briganti conoscitori del territorio. Con l’autunno del 1861 terminò la fase politica del brigantaggio postunitario diventando con sempre maggiore evidenza un fenomeno più sociale e meno politico. L’eversione della feudalità decretata da Giuseppe Napoleone con legge del 2 agosto 1806, che doveva creare nel Mezzogiorno una classe di piccoli proprietari con la prevista quotizzazione delle terre demaniali, lasciò invece immutato l’assetto economico: ai vecchi feudatari subentrarono i proprietari borghesi, le condizioni dei contadini si aggravarono inoltre per la perdita degli usi civici che esercitavano sui demani feudali.

Antico feudo dei Guevara negli anni dell’unificazione nazionale il circondario di Bovino comprendeva 21 Comuni tra i quali Greci e Savignano. Questo estremo lembo occidentale della Daunia è sempre stata una zona di confine tra popoli diversi, divenendo con lo sviluppo delle vie di comunicazione passaggio obbligato per i viaggiatori diretti in Puglia attraverso la regione appenninica. Questa circostanza, unita alla conformazione naturale del territorio ed alla secolare povertà delle genti, spiega la vocazione di questi luoghi al banditismo. Il Vallo di Bovino, solcato dal Cervaro, acquista la fama di passaggio terribile. Bande brigantesche si aggiravano nelle valli del Cervaro e del Miscano fin da 1861 compiendo furti e ricatti. Molto attiva era la comitiva dei grecesi e dei savignanesi che erano in collegamento con Giuseppe Schiavone, Antonio  Petrozzi  e Leonardo Scrima. Nel settembre del 1862 in contrada Ferrara fu aggredito Leonardo Marinaccio e rilasciato il giorno seguente avendo il padre pagato un riscatto di 120 ducati. Dopo alcuni giorni furono sequestrati i fratelli Francesco e Domenico Salvati, nella taverna sulla consolare di Orsara e Greci, rilasciati dietro il pagamento di 400 ducati ed oggetti d’oro. Bartolomeo Varo a sua volta fu responsabile dell’uccisione del guardaboschi municipale Domenico Lombardi.

L’11 settembre 1862 il prefetto di Avellino De Luca inviò ai sindaci una circolare “Provvedimenti contro il brigantaggio” sensibilizzando i sindaci, i comandanti delle guardie nazionale e i militi, “che erano tenuti al risarcimento dei danni causati da un numero non maggiore di dieci briganti nei territori di loro competenza”.  Alcuni successi delle forze dell’ordine furono conseguiti. La Guardia nazionale di Greci segnò qualche punto a suo favore. Infatti l’8 marzo 1862, messasi in perlustrazione insieme ad un distaccamento del 22° Fanteria ed alcuni militi di Montaguto, sorprese Leonardo Scrima, Bartolomeo Varo e Raffaele Di Carlo che, il giorno innanzi, avevano sequestrato i contadini Leonardo Boscia e Nicola Lucchesi. Il solo Raffaele Di Carlo di anni 23, detto Pio IX, rimase prigioniero. Condotto in paese, fu portato in giro per le principali strade, quindi fucilato fuori dall’abitato. Il suo cadavere fu lasciato al suolo per diversi giorni. Il 7 febbraio 1863 dieci guardie nazionali di Greci si scontrarono con briganti a cavallo della comitiva di Angelo Cavaliere uccidendo alcuni di essi.

Il brigantaggio apparve a molti come la sollevazione del popolo meridionale contro i piemontesi invasori, ed indubbiamente esso è stato, almeno fino ad un certo punto, anche questo. I metodi dell’unificazione non potevano piacere a nessuno. Quale fu la risposta del nuovo Stato?  L’istituzione dei prefetti (la loro provenienza era prevalentemente settentrionale) dagli ampi poteri, l’imposizione del servizio militare obbligatorio, l’imposizione della tassa sul macinato, l’unificazione delle tariffe doganali. Proprio nel 1862 furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di San Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia.

Un’analisi obiettiva e spregiudicata di tutta la vicenda del brigantaggio si trova nelle parole delle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari: “Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici”. I contadini del Sud nel decennio del brigantaggio si batterono praticamente privi di una centralizzazione politica e militare. In questa situazione era inevitabile che il brigantaggio dovesse essere represso e sconfitto. Storicamente il brigantaggio meridionale è stato una grande protesta armata dei contadini, sintomo precorritore dei grandi scontri sociali che avrebbero travagliato l’esistenza dello stato unitario.

Che cosa rimase ai contadini dopo la grande lotta sociale condotta in quel periodo? Sconfitti sul loro terreno, nel loro paese, nel tentativo confuso di modificarne certe strutture a loro vantaggio, ai contadini del Sud non rimase che trasportare oltre le Alpi, oltre gli oceani, la loro capacità di lavoro, lo spirito di sacrificio e la fiducia nella loro esistenza di miseria e di lotte.

 

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