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    22/07/2024

L'Irpinia e il Mezzogiorno durante la rivolta di Masaniello

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Una pianta del Principao UltraIl giovane Francesco Marino Caracciolo, per quanto padrone di uno stato feudale che si estendeva da Baronissi a Montefusco con un territorio molto vasto che comprendeva, oltre alla città e alle frazioni di Bellizzi e di Picarelli, il ducato di Atripalda con undici casali, il marchesato di Sanseverino con quarantatré casali e le baronie di Candida e di Montefredane – con, inoltre, un patrimonio burgensatico enorme costituito da crediti, censi e case in Napoli, dagli introiti delle numerose fabbriche tessili di Avellino, Atripalda e Sanseverino, dalla mastrodattìa di Taranto per una rendita complessiva di entrate di circa duecentomila ducati all’anno, una somma per quei tempi enorme (e questo senza contare che già le sue sostanze personali, con le ricchissime collezioni d’arte, la pinacoteca, l’armeria, il medagliere, l’argenteria cesellata, gli arazzi preziosi, i marmi e gli avori, ammontavano a oltre un milione di ducati) – si trovò a governare in un’epoca di particolare desolazione morale e materiale, di crisi politica, ma anche e soprattutto sociale, caratterizzata da carestie e da epidemie di peste bubbonica che flagellarono le popolazioni (particolarmente funesta quella del 1656 che colpì in modo particolare l’Italia meridionale e quindi anche Avellino e il Principato Ultra) che già si sentivano fortemente inasprite ed esasperate dalla miseria e dall’asfissiante pressione fiscale.

Sul piano del reddito agricolo ci fu una notevole riduzione che si scontrò con un aumento della popolazione. In seguito al calo di produzione, soprattutto del grano – anche in regioni tradizionalmente sicure come la Puglia – e al conseguente aumento dei prezzi si registrò una redistribuzione del reddito con un cambiamento nei rapporti di proprietà a favore dei grandi proprietari terrieri. Si ebbe, in altri termini, attraverso una vera e propria “rifeudalizzazione”, una ripresa dei vecchi rapporti feudali, per cui non solo scomparvero le piccole proprietà ma ci fu anche un maggiore controllo sui contadini. A tutto questo si deve aggiungere l’insopportabile ed oltremodo esoso gravame fiscale esercitato dai baroni su di una popolazione di per sé già in grossissime difficoltà di fronte ai flagelli delle carestie e delle pesti. Nelle aree del Mezzogiorno, poi, a rendere intollerabile la situazione era il fatto che il “focatico”, l’imposta che gravava sul capofamiglia, pesava soprattutto sulle comunità contadine con l’esclusione della città di Napoli, dei baroni, del clero. A ciò si aggiunga che le tasse aumentarono notevolmente per raccogliere fondi necessari agli spagnoli impegnati nella guerra dei Trent’anni. Nelle province le cose incominciarono a mettersi male per le fasce più deboli che versavano in condizioni di vita veramente intollerabili in seguito all’imposizione di tasse pesantissime su generi di largo consumo come il pane e la frutta.

A farsi interprete di questo malcontento e delle condizioni di estremo disagio delle popolazioni del Regno di Napoli era stato, qualche decennio prima, in Calabria, un monaco di Stilo, Tommaso Campanella, un domenicano di elevata cultura che nel 1599 fu il promotore, insieme con il padre Geronimo e un fratello nonché altri cospiratori quali Claudio Crispo, Maurizio De Rinaldis, Dionisio Ponzio, Giovambattista Vitale, Tommaso Tirotta, Pietrogiacomo Garcea, di una congiura popolare contro lo strapotere dei baroni. E i temi di questa sua esperienza rivoluzionaria trasferì, qualche anno dopo, nella sua opera maggiore, La città del Sole, in cui, con alle spalle ormai la Repubblica di Platone e l’Utopia di Tommaso Moro, senza peraltro dimenticare la lezione del suo corregionale Telesio, prospettò l’ideale di uno Stato in cui «tutte cose sono in comune, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi sono comuni, ma in maniera che non si può appropriare cosa alcuna». E questo in contrapposizione agli Stati contemporanei in cui c’è «gran corrutela e gli uomini si reggono follemente e non con ragione».

Ma fu nella capitale del Regno, Napoli, che nel luglio del 1647 l’esasperazione per la persistente pressione fiscale portò ad una rivolta della plebe ed alla fuga del viceré spagnolo Rodrigo Ponz de Léon duca d’Arcos. A guidare la plebe napoletana, oppressa da una nuova tassa sulla frutta, era un giovane pescivendolo di umili origini, Tommaso Aniello d’Amalfi (1620-1647), detto Masaniello, nato da Francesco detto Ciccio e Antonia Gargano, nominato dai nobili «capitano generale del fedelissimo popolo», che aveva il quartier generale presso la sua abitazione di vico Rotto al numero 177, nei pressi di piazza Mercato, dove viveva con la moglie Berardina Pisa «povera anch’essa ma di aspetto assai gentile».

In effetti, però, a dare le direttive al governo popolare che era scaturito dalla rivolta fu, novella ninfa Egeria, Giulio Genoino, un vecchio abate riformatore che già nel 1620, durante il vicereame di Pedro Téllez Giron duca di Ossuma, era stato l’estensore di un manifesto in cui proponeva un governo cittadino con la partecipazione paritaria dei nobili e del popolo. Utopia? Un sogno irrealizzabile in una realtà in cui la facevano da padrone i baroni senza nessuna possibilità per i più deboli di avere voce in capitolo? Sta di fatto che il vecchio pallino dell’abate-giurista originario di Cava de’ Tirreni di un governo popolare che rispondesse ai bisogni delle fasce socialmente meno protette sembrò trovare di nuovo spazio allorquando a muoversi insieme con lui furono diversi esponenti del ceto piccolo borghese e di quello popolare. Tra questi v’era Gennaro Annese, un armaiolo analfabeta fabbricante d’archibugi con bottega presso la porta del Carmine a Napoli, probabilmente di origine irpine, forse di Serino, ma molto più verisimilmente di Nola, «uomo di umilissima sorte, di poco intendimento, assai sparuto e mal composto di volto e di presenza», più volte in prigione per falso e contrabbando d’armi. Costui, dopo l’eliminazione di Masaniello – fatto fuori in seguito all’accordo tra il Genoino e il d’Arcos e, comunque, ormai in preda ad un evidente stato di squilibrio mentale – invitò prima il popolo a non fidarsi più del viceré, poi, «scopertissimo partigiano di Francia», dopo aver fatto decapitare il generale Francesco Turoldo, principe di Massa, già maestro di campo generale dell’armata spagnola nella campagna di Terragona (1644), consigliere del Collaterale e membro del Consiglio di guerra, proclamò la repubblica, infine invocò la protezione di Enrico II di Lorena (1614-1664), duca di Guisa, ultimo discendente del cavalleresco re Renato d’Angiò, venuto a Napoli con l’intento di acquisire il regno alla Francia, ma soprattutto con il malcelato proposito di procacciare una corona per sé.

Un piano destinato a fallire come era già fallito quello di un altro duca di Guisa, Francesco (1519-1563) capo dell’esercito inviato in Italia nel 1556 per appoggiare il papa Paolo IV e il nipote Carlo Carafa contro gli spagnoli nel tentativo di conquistare il regno di Napoli, tentativo conclusosi l’anno dopo con il trattato di Cave. Anche a Palermo, in quello stesso anno 1647, ci fu una rivolta popolare per protestare contro l’aumento del prezzo del pane. A guidarla il Masaniello locale, Giuseppe d’Alessio, un artigiano-operaio esperto nella lavorazione di metalli preziosi, anche lui finito miseramente sul patibolo al momento della restaurazione del governo spagnolo. Altri tumulti s’erano verificati in Calabria, Puglia, Molise con protagonisti i vari Giuseppe Gervasi, Pastore di Monitoro, Matteo Cristiano, Francesco Solazar, Nicola Mannara, rappresentanti del ceto popolare che si sentiva spremuto e vessato da un sistema fiscale asfissiante e non più sopportabile. Tutte queste rivolte avevano messo in risalto l’infelice rapporto che i sudditi delle varie province del Mezzogiorno avevano con i viceré coi quali non andavano assolutamente d’accordo abituati com’erano a riconoscere soltanto l’autorità del re.

Erano stati, quelli di quell’estate 1647, giorni di torbidi e di disordine amministrativo con la formazione di vere e proprie bande di «popolari» che scorazzarono non solo per la capitale ma in tutti territori del regno, anche quelli di Terra di Lavoro e dei due Principati. Per fronteggiare la situazione, il viceré duca d’Arcos invocò il soccorso e mobilitò al suo servizio i baroni del regno con l’indizione di leve e il reclutamento di milizie. Ad esercitare l’ufficio – che era già stato di suo padre – di Gran Cancelliere fu il principe di Avellino, il quasi diciassettenne Francesco Marino Caracciolo, il quale, in considerazione della sua giovane età, fu «costretto» a nominarsi un vice, l’abate Genoino, che lo affiancasse nella sua opera di repressione e di eliminazione delle bande di ribelli. Questo forzoso connubio durò fino al mese di settembre di quel 1647 allorché, per ordine dello stesso viceré, il Genoino, per i suoi rivoluzionari trascorsi politici, ma soprattutto perché implicato nella fine di Masaniello, in altre parole perché sapeva troppo, fu deportato in Sardegna finendo poi i suoi giorni a Porto Mahón, capoluogo dell’isola di Minorca, nelle Baleari, nel gennaio del 1648.

In Principato Ultra – «una delle province che fece maggior moto e più ostinatamente dimostrò e mantenne i segni del suo mal’animo o per la vicinanza di Napoli per essere infiniti dei suoi che alla città praticavano, e ne riceveano continuo fomento alla sollevazione, o per essere gli abitanti di natura feroce, e per lo continuo uso delle armi inclinati a risse ed a romori»  – tra le prime terre a tumultuare furono quelle di San Marco e San Giorgio, nel Sannio, ma sia il marchese Geronimo Cavaniglia che Carlo Andrea Caracciolo marchese di Torrecuso, che erano i rispettivi signori di quei centri, riuscirono a prendere i capi delle rivolte e a castigarli. A questo punto, in considerazione del fatto che squadre di popolari erano state sguinzagliate nei punti strategici delle province, soprattutto quelli – come Ariano e Avellino – per dove dovevano passare, provenienti dalla Puglia, le vettovaglie destinate ai popolari della capitale, il timore dopo le prime scaramucce di una generale sollevazione era forte per cui tutti i baroni del regno, su richiesta esplicita del duca d’Arcos, erano in stato di mobilitazione e si preparavano a prendere le armi. Per dare le direttive sul da farsi fu convocata d’urgenza un’assise a Montefusco dove aveva sede il tribunale e dove dimorava il preside o viceré e «governatore delle armi» della provincia, Giovan Vincenzo Strambone duca di Salsa, incaricato da Napoli, per il tramite del consigliere Antonio Miroballo, di fare da coordinatore: vi convennero, oltre al giovane Caracciolo principe di Avellino e allo zio Giuseppe principe di Torella, il principe di Chiusano, il principe di Montemiletto, il marchese di San Marco, il marchese di Torrecuso, il principe di Minervino, quello di Sepino, il duca di San Martino, il marchese di Cervinara, il duca di Gravina, il principe di Castellaneta. Tutti furono d’accordo nel designare loro capo Carlo della Gatta con grande disappunto del comandante generale delle forze regie Vincenzo Tuttavilla che non gradiva intrusi nel controllo delle operazioni e che sarà invece destinato ad operare, prevalentemente, nelle piazze d’armi di Aversa, Marigliano, Nola, Sant’Anastasia, Acerra.

Il momento era grave e, certo, fece piacere un po’ a tutti il sapere che un famoso astrologo del tempo, padre Biagio Magno, priore in un convento di Avellino, con fama di gran veggente e interprete delle stelle, richiesto dal principe di Avellino e da suo zio, di ritorno dal raduno di Montefusco, di dire «chi doveva restar vincitore di cotal briga, o i popolari, o i regii » aveva risposto assicurando, sia in forza delle sue conoscenze di astrologia sia perché di cuore fedele e leale, «certa vittoria, e che il tutto conforme il volere dei buoni si sarebbe in breve racchetato». Particolarmente impegnato fu il giovane Caracciolo, spalleggiato quasi sempre dallo zio, il principe di Torella – che era stato pure inviato insieme con altri baroni, tra cui Carlo Gambacorta marchese di Celenza e principe di Macchia e Carlo di Tocco principe di Montemiletto, a dare una mano a Diomede Carafa duca di Maddaloni per sedare i tumulti in quel di Aversa – nel far fronte ai vari focolai di rivolta che scoppiarono nelle terre di Montella, Serino, Montoro e Sanseverino. Qui prese ad operare con pochi compagni un Pietro de Blasio, un cappellaio «napoletano di umilissima nazione, ma di spiriti più grandi di quelli che il suo povero stato era capace», che si autonominò capitano generale del popolo e che, dopo un fallito tentativo di insurrezione ad Ariano che portò all’arresto di una trentina di ribelli, tre dei quali (due di Bonito ed uno di Grottaminarda) furono impiccati, finì miseramente i suoi giorni in Puglia ucciso da Giangirolamo Acquaviva conte di Conversano.

 

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