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    22/07/2024

Il castello di Avellino nella storia della città

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Il castello di Avellino e la collina della Terra in epoca normanna secondo una ricostruzione di ArchigrammaUna nuova ricca pagina si aggiunge all’indagine storiografica sulla città di Avellino. È quella scritta dal prof. Francesco Barra, docente di Storia contemporanea all’Università di Salerno ed autore de “Il Castello di Avellino”, primo volume dell’opera “Dal Castello al Palazzo”, dedicata proprio alla ricostruzione delle vicende del castello di Avellino e a quelle di Palazzo Caracciolo. Il volume, edito dalla Casa Editrice “Il Terebinto”, costituisce un tassello nuovo ed essenziale ai fini della riscoperta di luoghi e contesti socio-economici e culturali della città. In realtà, per certi versi l’opera di Barra si sostanzia in una vera e propria scoperta ex novo, in quanto rivela aspetti del tutto inediti della storia di Avellino, a partire dal castello. Demolendo interamente le convinzioni e le tesi di storici locali e non, Barra apre nuovi scenari, a partire dal castello, che erroneamente si ritiene essere stato edificato durante la dominazione longobarda. L’autore ricostruisce con precisione inappuntabile l’assetto edilizio ed urbanistico della originaria “rocca”, costruita sul sito che aveva ospitato il castrum di età romana. L’impresa non è semplice, proprio perché i consolidati fraintendimenti sul periodo in cui il castello fu realizzato, hanno determinato in passato errori rilevanti nella collocazione di altri edifici e luoghi-simbolo dell’antica Avellino, la cui ubicazione era legata a quella del castello.

Sotto gli occhi del lettore Barra disegna l’affresco dell’originario insediamento abitativo, raccolto intorno alla rocca. È una rappresentazione in continuo fluire, caratterizzata dalla rievocazione di strutture e luoghi da tempo perduti o radicalmente modificati: corsi d’acqua scomparsi, arterie stradali strategiche, monasteri e chiese che affollavano il paesaggio della città medievale. Toponimi che non esistono più, forse nemmeno nelle lontane reminiscenze di qualche anziano avellinese: Riocupo, la Tinta, la Terra.

Si tratta di una storia per molti versi affascinante, ricca di particolari inediti su quella parte della città che nel corso dei secoli è stata travolta dall’oblio “edilizio”, quello, cioè, causato dal frenetico e disordinato sviluppo urbanistico della città. Nel ricostruire le antiche vestigia della città Barra si giova dei ritrovamenti e degli scavi effettuati a Piazza Castello e nel centro storico nel corso degli ultimi anni. Egli, però, non si limita ad elencare e descrivere reperti, ma, viceversa, li inserisce in un contesto cittadino che ridisegna puntualmente, offrendo al lettore prospettive e panorami urbani che si incrociano con squarci di vita dell’Avellino dei secoli scorsi. Così, il dedalo di strade e di viuzze che percorre l’originario insediamento della Terra viene popolato da artigiani, commercianti, uomini d’arme, che lungo quelle arterie furono i veri protagonisti della storia della città. Barra ricostruisce anche le linee delle antiche difese di Avellino. Anzi, soprattutto nelle pagine dedicate agli eventi del periodo medievale, il perimetro difensivo della città diventa il punto di partenza per ridefinire le caratteristiche dell’originario insediamento abitativo. Un particolare interesse assume anche l’attenzione dedicata agli insediamenti produttivi e commerciali. Anche da questo punto di vista l’opera di Barra travalica i limiti di una semplice ricerca storica sugli antichi assetti edilizi ed urbanistici di Avellino. Lo storico, infatti, si sofferma sulla vita quotidiana della città, sulle attività e sulle condizioni di quegli strati meno nobili della popolazione, che molto spesso sono trascurati dall’indagine storica. E, infatti, l’autore descrive le botteghe ed i piccoli opifici in cui si svolgevano quelle attività artigianali e proto-industriali nel settore tessile che per secoli sostennero l’economia cittadina, fino a trovare spazio persino nel suo stemma: la tanto bistrattata pecora sta proprio a celebrare la vocazione manifatturiera tessile di Avellino.

Non manca nel volume la rievocazione dell’antico assetto del territorio. Pagine interessantissime sono dedicate al Parco dei Caracciolo che occupava un’area vastissima: dalla collina del Belvedere si estendeva fino alle attuali contrade Archi e Scrofeta, da una parte, e a Pianodardine, dall’altra. Si trattava di una struttura monumentale, “meraviglia del Regno”, che godeva di una vasta fama nel Seicento, attirando l’attenzione di studiosi e viaggiatori, anche stranieri. Persino Maria d’Asburgo, infanta di Spagna e regina d’Ungheria, nel corso di un breve soggiorno ad Avellino (tre giorni nel dicembre 1630) espresse il desiderio di visitarlo.

Ovviamente, però, l’intera indagine ruota intorno al castello, edificio semisconosciuto per gli avellinesi di oggi, abituati a vederne indifferenti i ruderi pressoché informi. Sennonché, l’opera di Barra ci restituisce il fascino di un edificio che ha segnato gli eventi della città per vari secoli. Prima di addentrarsi nella ricostruzione delle vicende che lo interessarono, l’autore mette un punto fermo nella sua storia: il castello di Avellino non fu costruito dai longobardi o, comunque, nel periodo della dominazione longobarda, come comunemente sostenuto dalla tradizione storica locale. Esso, in realtà, fu realizzato durante il governo dei normanni, probabilmente nella prima metà del XII secolo, allorquando fu al centro delle lotte tra il conte Rainulfo e Ruggero II d’Altavilla. Il castello è stato testimone delle alterne vicende delle famiglie aristocratiche che ressero la città e delle cicliche devastazioni che essa subì. Esso conobbe vari mutamenti, essendone stata modificata più volte la struttura. Nel corso dei secoli fu ampliato a più riprese, fino a quando, notevolmente appesantito da interventi edilizi incauti, fu irreparabilmente danneggiato dai terremoti del 1688, 1694 e 1702. In precedenza aveva già conosciuto altre devastazioni, in questo caso per mano di truppe nemiche che avevano cinto d’assedio e, poi, occupato Avellino. Tra tutte, memorabile fu quella subita nel 1440 ad opera delle truppe di Alfonso d’Aragona, che ne superò le difese “rompendo una parte de’ muri”. Fu questo episodio a determinare anche il cambiamento della sua destinazione e della sua funzione. L’assedio aragonese, infatti, mise a nudo le gravi carenze delle strutture di difesa del castello, che, esposto al tiro curvo dei mortai, subì notevoli danni. Nella prima metà del XVI secolo Maria de Cardona e Francesco d’Este avviarono i lavori per la sua trasformazione in palazzo rinascimentale. Il “Castello Nuovo”, come fu definito dai cronisti dell’epoca, acquistò una destinazione prevalentemente residenziale, tanto che furono realizzate due nuove ali per sopperire alle sue modeste capacità abitative.

Paradossalmente, però, l’ultimo dei restauri a cui il castello fu assoggettato ne segnò anche l’inizio della fine. In alcuni documenti del 1575 veniva già definito “in gran parte de royna”, anche se in quest’ultimo caso la devastazione non fu causata da truppe nemiche, ma dal disastroso terremoto del 1561. Successivamente, a seguito della ristrutturazione degli assetti viari della città, il castello fu sottoposto a nuovi interventi, che ne modificarono la struttura, riducendo le dimensioni delle sue pertinenze. Con la dinastia dei Caracciolo il castello visse gli ultimi momenti di splendore. A dispetto delle difficoltà determinate dalla morfologia della collina su cui esso era ubicato, da una parte, e dalla sovrapposizione disordinata di una lunga serie di interventi edilizi, dall’altra, l’edificio subì nuovi ampliamenti e nel 1630, come è stato già ricordato, ospitò l’infanta di Spagna. E, tuttavia, proprio la scelta di realizzare le sopraelevazioni necessarie a creare nuovi ambienti abitativi, si rivelò funesta per il destino del castello. E, ancora una volta l’appesantimento della struttura, come già sopra si è detto, ne determinò la distruzione dopo i ripetuti terremoti che si verificarono tra la fine del Seicento ed i primi anni del secolo successivo.

Il castello, infine, conobbe un progressivo declino. Una parte della struttura, ampiamente disastrata, fu utilizzata persino come stenditoio dai tintori della zona. Lunghe dispute giudiziarie videro contrapposti il conte de La Tour (ultimo discendente della famiglia Caracciolo), da una parte, ed il Comune di Avellino, dall’altra. Fino agli anni Settanta del secolo scorso a più riprese si invocò la demolizione definitiva di ciò che restava del castello. Anche i rappresentanti delle istituzioni cittadine tantarono di dar seguito allo scellerato progetto di sgomberare interamente l’area su cui insiste il complesso per destinarla ad altri usi. Solo le resistenze della Sovrintendenza ai Beni culturali salvò il castello di Avellino da una nuova devastazione, questa volta ad opera degli stessi avellinesi. Solo nel 1978 l’amministrazione comunale avviò un programma di recupero dell’edificio, che, tra varie interruzioni, fu di fatto avviato nel 1989, protraendosi fino al 2009. Proprio grazie a questo intervento, curato dall’architetto Colucci, ed ai successivi lavori effettuati nel 2012 dinanzi al teatro Gesualdo, il castello ha svelato una parte significativa della sua storia, restituendo ad Avellino un pezzo della sua identità smarrita.

Alla fine della lettura del volume di Barra resta la meraviglia per la scoperta di una storia colpevolmente ignorata e sottovalutata dalle istituzioni, comprese quelle deputate alla formazione ed istruzione delle nuove generazioni. E resta, ancora, il recupero della memoria storica di Avellino, di modo che anche semplici pratiche quotidiane (passeggiare per il centro storico, avvicinarsi ai ruderi del castello, contemplare dalla collina del “Belvedere” la veduta della città) acquisteranno un diverso valore e significato.

 

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