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    03/07/2024

Un professore al fronte

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Cultura_coppola.jpgIl ventesimo secolo fu segnato dalle più grandi carneficine della storia dell’umanità. Tra tutte, la prima guerra mondiale fu antesignana delle immani tragedie che avrebbero funestato i decenni successivi. Con la Grande Guerra mutarono completamente i canoni bellici tradizionali. Le battaglie aeree, i carri armati, i gas tossici: sono solo alcuni esempi di innovazioni tecnologiche che contribuirono all’andamento del conflitto. Ma, soprattutto, fu la prima guerra che vide combattere milioni di uomini in un teatro di guerra che si estendeva per l’intera Europa centrale. Fu l’ultima guerra “di posizione”, combattuta dagli eserciti rintanati nelle opposte trincee, oppure lanciati all’assalto in dissennati attacchi all’arma bianca. Fu, infine, la prima guerra che lasciò ai posteri una larga messe di testimonianze rese sia dai combattenti sia dagli osservatori esterni.

A questa interessante memorialistica appartengono anche i ricordi del sottotenente Nunzio Coppola, recentemente raccolti in un volume, Un professore al fronte, curato da Giuseppe Coppola e Matteo Ermacora, pubblicato per i tipi dell’editore Gaspari. Il libro si compone del diario di guerra e delle lettere inviate dall’ufficiale ai suoi cari durante il periodo trascorso nei campi di prigionia austro-ungarici. Coppola, originario di Pomigliano d’Arco, docente di materie letterarie nei licei di varie città d’Italia, compresa Avellino dove, presso il liceo classico Pietro Colletta insegnò nell’anno scolastico 1925-1926, studioso attento rigoroso (tra gli altri, ha lasciato scritti su Carlo Poerio e Paolo Emilio Imbriani), è uno dei tantissimi giovani che, scoppiata la guerra, ritengono “sacro dovere” arruolarsi nelle file dell’esercito per servire la Patria e completare l’opera di unificazione avviata in epoca risorgimentale.

Fin dalle prime pagine del suo diario, però, appare evidente la sua delusione nel constatare che la realtà del fronte è molto diversa da quella sognata prima della partenza. La realtà è fatta di snervanti attese trascorse negli angusti camminamenti, sottoposti a bombardamenti senza sosta. E la realtà, ancora, ha il mesto ed angoscioso aspetto dei soldati destinati al macello da comandanti incapaci, che sacrificano alla loro inettitudine la vita di migliaia di uomini provenienti da tutta Italia, per la prima volta unificati da una tragedia indicibile.

I primi giorni di guerra lo vedono subito impegnato sul fronte del Carso, in un contesto molto diverso da quello tramandato dalla letteratura di genere o propagandato dalla pubblicistica interventista. Coppola sembra irrequieto, stanco di giorni immobili trascorsi in attesa dei bombardamenti austriaci. Il suo stato d’animo cambia completamente quando si avvicina lo scontro vero e proprio: “A che ora ci sarà l’assalto? La Compagnia freme, noi ufficiali non stiamo più nei panni, andremo avanti a qualunque costo”.

Dura poco, però, l’euforia del giovane sottufficiale. Ben presto Coppola si trova a percorrere un indicibile calvario, che parte da Castagnevizza, teatro di uno degli scontri più importanti della decima battaglia dell’Isonzo (mirabilmente descritta ed analizzata nell’apposita appendice di Matteo Ermacora), per proseguire, una volta catturato, nei campi di Mauthausen, Heinrichsgrun e Komarom.

In questo sofferto percorso Coppola ci introduce in uno degli aspetti meno conosciuti – o, forse, meno ricordati – della storia dei soldati italiani che parteciparono alla prima guerra mondiale: la prigionia. Dalle lettere inviate ai familiari emergono storie inquietanti: storie di soldati morti letteralmente di fame; storie di ufficiali italiani che anche nei campi di prigionia si dimostrano incapaci ad esercitare le leve del comando e a tutelare i propri sottoposti rispetto alle vessazioni subite dai carcerieri nemici; storie di squallido sciacallaggio ad opera degli addetti alla frontiera italo-svizzera che, ispezionando i pacchi destinati ai prigionieri, non disdegnano di depredarne il contenuto. Nelle pagine di Un professore al fronte, insomma, si coglie in tutta la sua drammaticità il vero volto della Grande Guerra. La guerra di posizione, sommariamente raccontata nei libri di scuola, rivela tutte le sue atrocità. E, soprattutto, diventa chiaro lo scollamento tra chi combatte per un ideale (la liberazione delle terre irredente) e chi sul fronte cerca solo gloria a buon mercato, a spese di soldati consapevolmente sacrificati sull’altare delle ambizioni di carriera.

Coppola è partecipe di queste vicende e di questa partecipazione la narrazione risente. Un professore al fronte, insomma, non è un saggio storico, né un reportage su alcuni episodi bellici. Si tratta, piuttosto, di una raccolta di ricordi “intimi”, affidati ora ad un diario (tenuto fino al primo periodo di prigionia), ora ad una fitta corrispondenza, indirizzata per lo più al padre. E, tuttavia, anche le lettere conservano le caratteristiche di una cronaca quotidiana, sia per la loro frequenza sia per il fatto che Coppola utilizza ampiamente la corrispondenza come rimedio alle proprie frustrazioni e sofferenze.

Diviso tra il bisogno di sfogarsi con i familiari e la premura di rassicurarli sul proprio stato di salute psico-fisico, Coppola non riesce a mascherare la disperazione per la condizione in cui versa. Il suo stato d’animo cambia radicalmente solo nella seconda metà del 1918, allorquando le notizie dell’imminente crollo della Duplice Intesa trapelano sempre più insistenti anche all’interno dei campi di prigionia.

Con il ritorno in Patria il diario di Coppola rivela altri sentimenti: l’ansia del ritorno; le ultime paure; la serenità ritrovata nell’accogliente famiglia d’origine. Non è dato sapere come questa esperienza avrà inciso sul futuro percorso di vita dell’ex sottufficiale. Certo è che i giorni trascorsi al fronte ed in prigionia, come per tutti i reduci della Grande Guerra, avranno lasciato un segno indelebile sulle sue future scelte e prospettive.

 

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