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    20/05/2024

La traversata del Partenio di Renato d’Angiò

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Renato d'Angio, Giovanna II e Alfonso d'AragonaSucceduta nel 1414 al fratello Ladislao la regina Giovanna II, figlia di Carlo III e di Margherita di Durazzo, l’anno successivo convolò a nozze con Giacomo II Borbone conte della Marcia con il quale non ebbe buoni rapporti dal momento che fu da lui imprigionata dopo l’uccisione del suo amante e favorito di corte, il gran ciambellano Pandolfello Piscopo. Riuscì, però, a tornare a governare in seguito ad un’insurrezione condotta dai suoi fedelissimi, con in testa Ottino Caracciolo ed Annecchino Mormile, ma soprattutto grazie all’appoggio ricevuto dal potentissimo conte di Avellino Giovanni Caracciolo, detto Sergianni, figlio di Francesco e Covella Sardo, suo nuovo favorito e amante, uno degli uomini più in vista del Regno.

Fu proprio Sergianni a convincere la sovrana ad adottare Luigi III d’Angiò duca di Lorena e conte di Provenza, anche se di fatto fu lui, gran siniscalco del Regno, a governare in prima persona. Caduto in disgrazia, anche per l’invidia e le gelosie degli altri dignitari di corte, su istigazione della duchessa di Sessa, Covella Ruffo, amica e dama di compagnia dell’ormai vecchia regina, fu fatto assassinare dalla stessa sovrana che, pare, fosse stata addirittura da lui oltraggiata e schiaffeggiata. Gli ultimi sette anni del regno di Giovanna furono caratterizzati dalla guerra per la successione al trono tra Luigi III d’Angiò, che ha al proprio servizio Muzio Attendolo Sforza, gran condottiero e uno dei maggiori professionisti delle armi di quell’epoca, e Alfonso V d’Aragona il Magnanimo, già re d’Aragona e di Sicilia, che, invece, si affida alla strategia militare di Braccio da Montone, uno dei condottieri più audaci e coraggiosi del tempo, rivale dello Sforza. Di fronte si trovarono, dunque, due scuole militari: quella dei bracceschi, tutta mobilità e ardore, e quella degli sforzeschi basata più sulla manovra e sul calcolo.

Questa guerra fu occasionata dal fatto che la volubile regina Giovanna II aveva adottato or  l'uno or l'altro designandoli come successori al trono di Napoli. Riconobbe infine come proprio erede il fratello di Luigi III, Renato d’Angiò, anche se, alla fine, a prevalere sarà Alfonso d’Aragona.

Renato d'Angiò si era reso già celebre per le sue gesta cavalleresche ed era circondato da un'aureola di romanticismo per la sua volontaria prigionia presso il duca di Borgogna, Filippo il Buono che, benché impegnato nelle vicende politiche legate alla guerra dei Cent’anni, riuscì ad attuare una serie di riforme economiche nei suoi stati e incoraggiò le lettere e le arti. Le lotte tra Renato d’Angiò e Alfonso d'Aragona erano anche espressione del secolare antagonismo tra la Spagna e la Francia per il dominio del Mediterraneo occidentale. Pressoché nulli erano gli aiuti che l’angioino poteva in quel momento sperare dalla Francia che era impegnata contro l’Inghilterra nella fase risolutiva della guerra dei Cent’anni.

Il  vasto campo di battaglie fra i due antagonisti si svolse in Abruzzo, Puglia e Irpinia. La figura di Renato, detto il Buono, conquistò l'animo sensibilissimo del popolo napoletano per la dolce espressione del viso, l'indole generosa dell’animo, la vivacità dell'ingegno, la perizia nelle lettere, nella musica, nella pittura: tutte doti che fecero di lui un mecenate illuminato ed un letterato fine e sensibile. Verso la fine del 1439 Renato, assediato a Napoli dalle forze aragonesi di Alfonso, perdeva il suo più valido sostegno, essendo morto il grande condottiero delle forze armate, Raimondo Caldora, potente segretario abruzzese e gran camerlengo. Il figlio, Antonio Caldora, successogli nel comando, indeciso sul da farsi, si ritirò con le milizie nei castelli aviti della valle del Sangro, lasciando Renato bloccato in Napoli dall'esercito aragonese ed esponendolo così, separato dalle sue forze in questo momento critico, alla sicura sconfitta.

Di qui l'ardito tentativo di Renato di uscire da Napoli e recarsi personalmente dal Caldora per tentare di convincerlo a ricondurre l’esercito a Napoli, organizzare l’estrema difesa e proteggere la corona dagli attacchi del suo rivale. La meta era Lucera, in Puglia, dove si sarebbe dovuto incontrare con il Caldora, quella stessa Lucera che, circa due secoli prima, aveva  tentato di raggiungere, attraversando la montagna del Partenio e dopo una sosta presso il castello di Atripalda, lo sfortunato Manfredi di Svevia. Si trattava però di un'impresa audace, dovendo uscire da Napoli con piccola scorta, sfuggire alla vigilanza degli avamposti aragonesi che sorvegliavano le porte della città, attraversare terre e castelli tenuti da suoi avversari, partigiani dell’aragonese, come  Raimondo Orsini conte di Nola e barone di Atripalda, e Andrea De Capua conte di Altavilla.

Usò uno stratagemma: fece allestire nel porto due galee diffondendo contemporaneamente la voce che egli si apprestava a recarsi personalmente dal papa per invocare aiuti. E allora, nella notte del 28 gennaio 1440, con quaranta cavalieri e un centinaio di soldati, uscì con le necessarie precauzioni da Porta Nolana e, dopo aver superato Nola alle prime luci dell'alba, proseguì per Baiano, terra ostile, perché ricadente nella baronia di Raimondo Orsini. Alle richieste dei contadini e di quanti, incuriositi e allarmanti al passaggio di quel nutrito gruppo di cavalieri, domandavano a quale fazione appartenessero, i cavalieri di Renato, fingendosi armigeri del conte di Nola, risposero di avere delle “pratiche” con la terra di Summonte. Verso sera erano alle falde della catena del Partenio.

Renato volle evitare il cammino più agevole per Monteforte perché la strada era battuta dalle truppe aragonesi; scelse perciò la via più impervia per l'aspro sentiero che porta al Campo di Summonte o Campo San Giovanni. La neve era alta; la marcia si rese ancora più difficile per una tormenta violentissima che li sorprese nel cuore della montagna. Quattro uomini morirono assiderati, numerosi cavalli precipitarono nei burroni. Renato, conservando la sua abituale serenità, infondeva coraggio a tutti distribuendo personalmente pane e vino fornitigli da un suo cavaliere. Tra non pochi pericoli, riuscirono alla fine, grazie alla guida di fra Antonello, un monaco verginiano esperto conoscitore dei luoghi, a giungere a Summonte da dove proseguirono subito per Sant’Angelo a Scala: qui ricevettero ospitalità da Ottino Caracciolo e dalla consorte Caterina Ruffo, signori di quelle terre. Dopo che il re ebbe cambiato gli indumenti, completamente inzuppati d’acqua per il cattivo tempo che aveva accompagnato la marcia, fu acceso un gran fuoco, consumato una magro pasto a base di pane e uova, bevuto del vino non in coppe pregiate o bicchieri di riguardo, ma, alla maniera contadina e secondo l’usanza delle campagne, direttamente tracannandolo dall’orciolo.

Il giorno seguente Renato coi suoi riprese il cammino non senza aver prima evitato un assalto alla sua scorta da parte di un  gruppo di contadini nei pressi di Pietrastornina. Ne furono fatti prigionieri cinque cui però fu fatta salva la vita grazie alla magnanimità del re. Superata Altavilla, in piena notte fu raggiunta la città di Benevento. Non rimaneva che l’ultimo tratto verso Lucera per potersi incontrare con il Caldora. Così si chiudeva quella difficile e tortuosa traversata per le terre irpine.

Le  accoglienze entusiastiche fatte al re Renato dalle popolazioni irpine provocarono le ire gelose di Alfonso d'Aragona che nel giugno di quel 1440, memore del gran rifiuto che Avellino gli aveva fatto quattro anni prima negandogli ospitalità e diritto di passaggio durante un suo viaggio alla volta della Puglia per mettere insieme le forze necessarie ad affrontare il nemico, si presentò con le sue insegne alle porte della città che era, allora, nelle mani del conte Troiano Caracciolo, figlio di Sergianni e di Caterina Filangieri, fedele in quella intricata fase politica alla causa angioina. Durissima e particolarmente cruenta la rappresaglia di Alfonso nei confronti della città. Dopo averla assediata, la conquistò, la incendiò, la rase al suolo e passò a fil di spada gli eroici e indomiti difensori. Furono assalite le terre del circondario che si trovavano sotto il dominio dei signori alleati di Troiano come Giovannotto di Montefalcione col quale, nel dicembre del 1426, già aveva stipulato un accordo militare l’illustre e potente genitore di Troiano, il conte Sergianni.

Indicibili furono le conseguenze di quella dolorosissima e sanguinosa campagna militare per la città di Avellino con danni per la struttura urbanistica dell’abitato, i monumenti, le chiese. Il duomo venne per buona parte abbattuto, andò disperso il corpo di San Modestino, patrono della città, e degli altri santi. Fu una tale rovina che tutti gli abitanti si ridussero ad abitare nella contrada detta la Terra in seguito all’abbandono delle altre zone dell’agglomerato urbano, da quella posizionata a Nord e allora detta Belvedere, e che poi sarà chiamata il Parco, fino al villaggio le Bellezze dove scomparvero del tutto quelli che erano i luoghi di diporto per la popolazione di allora. Le conseguenze le pagarono, negli anni successivi, anche le strutture ecclesiastiche: le dieci parrocchie che fino ad allora v’erano nella sola città di Avellino furono accorpate tutte al vescovado; ridotto il numero dei canonici, diminuite se non del tutto eliminate le rendite del clero con il risultato che, per il mantenimento del vescovo, il papa Paolo II riunì in un un’unica diocesi Avellino e Frigento.

 

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