www.giornalelirpinia.it

    03/07/2024

Mancini contro il clero napoletano che rifiutò il Te Deum al re d'Italia

E-mail Stampa PDF

Nella foto: Vittorio Emanule II e Pasquale Stanislao Mancini. Sotto, la chiesa di San Lorenzo Maggiore a Napoli.Il 14 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II compiva gli anni. Il genetliaco, anche per i recenti risultati politici e militari (il successivo 17 marzo, infatti, sarà proclamato re d’Italia) fu celebrato con particolare solennità. A Napoli tuttavia la celebrazione diede luogo ad un episodio curioso, sia pure in linea con il comportamento di una parte del clero meridionale.  Esso emerge da una lettera di Pasquale Stanislao Mancini, all’epoca consigliere per gli Affari ecclesiastici presso la Luogotenenza Carignano, datata 15 marzo 1861 e indirizzata al Soprintendente generale di casa reale,  Gioacchino Saluzzo, principe di Lequile.

“È venuto a conoscenza di questo Dicastero – scrive Mancini – che i cappellani della Real Cappella Palatina, all’invito loro fatto da Monsignor Cappellano Maggiore di recarsi ieri sera nella Chiesa di San Lorenzo Maggiore pel canto del Te Deum affin di solennizzare col Municipio il dì natalizio di S. M. il Re Vittorio Emanuele, siensi rifiutati, adducendo non esser tenuti a funzionare in altre chiese diverse dalla cappella palatina, quando non v’intervenga il Re, benché vi funzioni il Cappellano Maggiore, e da questi siano espressamente invitati”.

“Avendo un tal fatto – prosegue Mancini – richiamato l’attenzione, per la notorietà di certe risoluzioni in proposito comunicate da Roma, e che non munite del regio exequatur, non potrebbero tra noi eseguirsi senza flagrante illegalità, e tanto meno da un clero stipendiato ed addetto al servizio della Real Casa e Persona, sono in dovere di farne relazione, di accordo con codesta soprintendenza, a S.A. Reale il Principe Luogotenente, non dovendo lasciar passare inosservato un così grave avvenimento, e permetterne la riproduzione”.

La risoluzione cui si riferisce Mancini è con ogni probabilità la lettera del 28 febbraio della sagra congregazione del Concilio con cui in sostanza si sconfessava la nomina del nuovo cappellano maggiore, il quale altri non era che Michele Maria Caputo, vescovo di Ariano Irpino, nominato nell’incarico da Farini, dopo che le stesso Caputo, secondo alcune ricostruzioni, aveva fatto “atto di adesione al nuovo ordine di cose” gettandosi ai piedi di Garibaldi. Il medesimo Caputo fin dal dicembre del 1860 invitava ad accogliere "dalla giustizia e dalla Provvidenza di Dio questo Vittorio Emanuele, che le universe italiane genti han conclamato loro Re”, provocando in tal modo “le violente reazioni degli ambienti cattolici…, tanto che su sollecitazione del Farini, fu costretto a intervenire lo stesso Cavour per indurre il recalcitrante principe di Lequile, sovrintendente ai regi palazzi di Napoli, a permettere che il vescovo d'Ariano esercitasse "in via provvisoria" le funzioni di cappellano maggiore (Enc. Treccani)”.  Su tutta la vicenda dunque pesava anche il fatto che monsignor Caputo, cappellano maggiore, fosse ritenuto una sorta di abusivo e come tale assolutamente mal digerito dal clero palatino.

“Prego pertanto – così  continua la lettera – la S.V. illustrissima di verificare con la debita esattezza se la scusa addotta da’ cappellani sia fondata sopra alcun titolo, o almeno sopra una costante ed invariabile consuetudine, cioè se ne’ precedenti anni, allorché il Cappellano Maggiore dirigesse formale invito a’ cappellani suoi dipendenti di assisterlo in funzioni pontificali in altre chiese  (come sono assicurato che praticavasi specialmente per la Chiesa di S. Antonio Abate) i medesimi costumassero di rifiutarsi, attesa l’assenza del Re. Una tale interpretazione del resto lascerebbe dubitare se la conservazione di un clero palatino in Napoli fosse per riuscire di notevole pratica utilità, fuorché pe’ non lunghi periodi di presenza di Sua Maestà”.

In effetti, al di la della sottile minaccia di Mancini, la materia era disciplinata dalla bolla Convenit di Benedetto XIV, la quale prevedeva che in tutte le chiese, ad eccezione delle cattedrali, intervenendo il re, sia il cappellano maggiore che gli altri cappellani potessero esercitare le funzioni, senza però prevedere divieti per il caso di assenza del re. Mancini ne fa tuttavia anche un problema di opportunità. Scrive, infatti: “In ogni caso poi e quando pure i cappellani potessero dimostrare il preteso loro diritto, spetterebbe a codesta Real Soprintendenza apprezzare se essi, ancorché non obbligati, dovessero sentire la convenienza di prestarsi all’invito del loro superiore nella fausta circostanza di un pubblico omaggio personalmente diretto a S.M. il nostro Augusto Principe, e massimamente poi nelle condizioni in cui attualmente versano le relazioni del Governo con una parte del Clero”.

È probabile che Mancini nel momento in cui scrive abbia presente anche un’altra “vertenza” difficile, in corso da tempo con il vescovo di Avellino, monsignor Francesco Gallo, anch’essa inaspritosi per il rifiuto di celebrare il Te Deum (questa volta per la caduta di Gaeta, il 17 febbraio precedente) e risolta con le cattive maniere, che sembrano prospettarsi anche per la questione della lettera. Così infatti Mancini conclude: “Attenderò sul contenuto della presente colla possibile celerità le informazioni e l’avviso di codesta Soprintendenza, anche per l’obbligo che m’incombe di vegliare alla subordinazione ed alla buona disciplina di tutte le autorità ecclesiastiche”.

 

Aggiungi commento

Codice di sicurezza
Aggiorna

DG3 Dolciaria

Geoconsult

Condividi


www.puhua.net www.darongshu.cn www.fullwa.com www.poptunnel.com