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    03/07/2024

Alle radici della storia di Avellino

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Una ricostruzione di Armando Montefusco del famoso  parco dei Caracciolo, principi di AvellinoÈ un volume quello di Armando Montefusco, Monografie per la storia di Avellino, con la prefazione di Gianni Festa, che non si può leggere tutto di un fiato, ma un poco alla volta. Non solo perché è corposo – quasi quattrocento pagine che nascono dai contributi pubblicati sulle pagine domenicali del Corriere – ma perché sviscera le radici della città di Avellino in un’analisi che segue almeno due traiettorie: quella della riflessione storica e quella delle considerazioni socio-politiche.

A buon diritto, le riflessioni che l’opera contiene si inseriscono in una più ampia riflessione che gli intellettuali del Sud propongono negli ultimi anni, sulla concreta necessità di strutturare un programma di azioni concrete, efficaci e durevoli per la promozione di un patrimonio.

In questa summa della storia di Avellino sono inserite, per la precisione, 89 monografie, suddivise in due parti, la prima dedicata al racconto dell’evoluzione urbana di Avellino, dalle origini ad oggi, la seconda, dal titolo “Contrade e casali”, offre, invece, un quadro dello sviluppo urbano delle aree situate nelle immediate periferie della città, da Bellizzi a contrada San Tommaso, da Valle-Ponticelli alla Ferrovia. Si tratta, a mio avviso, di un’opera che può fornire indicazioni assai utili agli studenti che intendono affrontare una tesi di laurea che abbia attinenza con lo sviluppo del territorio, con i segni della storia, con le tracce del passato.

Attraverso una precisa ed accurata ricostruzione delle fonti, vengono rivisitati luoghi di una topografia della città talvolta definitivamente scomparsa o ricostruita dopo eventi naturali catastrofici: vengono indicati con puntualità gli effetti dei vari terremoti che si sono sfortunatamente verificati in Irpinia e i piani della ricostruzione che, spesso, hanno cambiato o addirittura stravolto il volto originario della città.

Poi ci sono i luoghi più significativi che hanno dato l’imprinting al territorio, in particolare tutte le chiese e i monasteri della città, attorno ai quali si è costruiti il senso dell’appartenenza alla comunità: a partire dalla cattedrale longobarda, sorta quando la città divenne sede vescovile, intorno al X secolo, dall’originaria chiesa madre di Avellino, ristrutturata per dare vita ad una nuova Ecclesia Sancte Mariae sedis Abellinensis. È interessante il racconto di come, nel XII secolo, la vita socio-religiosa della comunità si fosse vivificata grazie all’opera di San Guglielmo da Vercelli, fondatore del cenobio di Montevergine; successivamente i vescovi Guglielmo e Roberto favoriranno la ristrutturazione della chiesa, come attestano le antiche lapidi: “O Vergine Maria il vescovo Roberto ti offre questo splendido ingressi come una supplica affinché tu ottenga il perdono dei peccati” e “Voi che entrate in questa porta per piangere i vostri peccati, dovete passare per me, poiché io sono la porta della vita eterna. Guglielmo, divenuto vescovo, ha ampliato la porta per dare a tutti la possibilità di entrarvi per espiare i propri peccati”.

C’è poi il racconto della fine subita dallo storico monastero di San Francesco, rimasto per secoli nel cuore pulsante della città e poi abbattuto per dar vita ad una nuova  idea architettonica di Avellino, con grande disappunto dei suoi abitanti, i quali a quella chiesa erano legatissimi.

Se la piazza ottocentesca si era inserita nel contesto urbano come il nuovo salotto cittadino e di questo si era fatto interprete Cesare Uva, nel famosissimo quadro “Veduta del Largo di Avellino presa dal Palazzo vescovile”, sin dalla prima metà del ‘900 prevalse, invece, come riporta una cronaca del tempo, la logica del “piccone rigeneratore”, secondo cui “Avellino è una città moderna che deve sentirsi all’unisono con i tempi nuovi . Essa non è un convento in cui debbano costruirsi altari e altarini da per tutto… tutte le piccole città vanno trasformandosi, modernizzandosi ed abbellendosi, perché voler conservare  in Avellino quel rudere collabente che con le sue catapecchie ad esse addossate deturpano la bella Piazza libertà”. Negli anni Cinquanta, però, questa idea innovativa, almeno sulla carta, sembra spegnersi, con la costruzione del “monotono” Palazzo Ina, poi recentemente abbattuto per dar vita a Palazzo Ercolino.

Altra “vittima illustre” di queste distruzioni fu l’elegante teatro comunale che, nonostante i restauri precedenti, all’inizio del ’900 mostrava la sua precarietà, tanto che se ne decise l’abbattimento; al suo posto venne realizzato l’attuale Palazzo Sarchiola che con il suo stile neo-classico troneggia sul lato occidentale della Piazza, ancora una volta per proporre una diversa idea di città.

È evidente nel puntuale racconto di Montefusco sulle trasformazioni che la città ha subito nel tempo come, troppo frequentemente, il nuovo che ha soppiantato l’antico, risulta meno valido, sia dal punto di vista estetico che funzionale. Il saggio diventa, perciò, un sottile atto di accusa verso le responsabilità disattese di una classe politica che non è riuscita a salvaguardare il patrimonio storico-artistico locale.

In una delle presentazioni del libro, il 20 maggio scorso, al carcere borbonico, alla quale hanno partecipato insieme all’autore, il moderatore dell’incontro Gianni Festa, il sindaco di Avellino Giuseppe Galasso, gli ex ministri Gerardo Bianco, Gianfranco Rotondi e l’ex vice presidente del Csm Nicola Mancino, il relatore Francesco Barra, nel suo intervento, ha inserito un’annotazione storica interessante sulla conformazione della città, che “conserva l’impianto della rettilineità che diventa piazza nel centro storico quasi per un fattore casuale, in quanto parte di Piazza Libertà era del convento di San Francesco e per questo non è stata mai edificata”.

D’altra parte, lo storico avellinese ha insistito sulla valenza politica delle considerazioni espresse da Montefusco: la documentazione delle distruzioni e degli scempi stratificatisi negli anni dichiarano l’incapacità delle classi dirigenti di pianificare un’evoluzione urbana in sintonia con le esigenze del territorio.

Il resoconto dell’evoluzione urbana del centro storico di Avellino e quella delle aree periferiche della città ci riporta inevitabilmente anche alle questioni dei giorni nostri, quelle relative ad un tessuto sociale disgregato, alla continua ricerca della sua identità, ma lascia aperto, ha insistito Barra, un messaggio di speranza: “perché si possono anche abbattere le mura, gli edifici, ma gli abitanti di questa città sono sempre rimasti in piedi”.

 

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