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    22/07/2024

Il cenacolo di Carlo Gesualdo nell'Irpinia del Seicento

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Il castello di Gesualdo. Nel riquadro, Carlo GesualdoDal 1503 al 1734 le regioni del Mezzogiorno vissero un periodo di 231 anni di governo vicereale che minò non poco, nel rapporto coi sudditi, soprattutto quelli delle zone interne, il prestigio dei sovrani. Ogni potere era nelle mani di viceré che si susseguivano abbastanza rapidamente con la pressoché totale mancanza di un indirizzo duraturo ed efficace nella vita del paese.

Le visite “reali” in terra d’Irpinia si facevano sempre più rare. Era, dunque, pressoché naturale che i nobili la facessero da padroni badando a consolidare sempre più la loro posizione con attestati che ne aumentassero, di fronte al ceto popolare, il prestigio e la potenza.

Con privilegio del 25 aprile 1589, reso esecutivo nel giugno dello stesso anno dal vicerè Juan de Zuniga conte di Miranda, Filippo II di Spagna concesse il titolo di principe al feudatario di Avellino Marino I Caracciolo, conte di Torella dei Lombardi e duca di Atripalda, che aveva sposato nel 1557 Crisostoma Carafa, figlia di Fabrizio conte di Ruvo, in nome della quale nel maggio del 1581 aveva comprato per 113.469 ducati la città di Avellino insieme con il casale delle Bellezze.

Marino era tenuto in grande considerazione in quanto, poco meno di una ventina d’anni prima, si era distinto con “non meno valore nell’armi che prudenza ne’ consigli” in qualità di comandante di una propria galea nella battaglia di Lepanto, uno dei più sanguinosi scontri navali della storia, combattuta nelle acque antistanti il golfo di Corinto il 7 ottobre del 1571 e vinta dal fratello naturale di Filippo II, don Giovanni d’Austria,  capo della lega santa – di cui facevano parte, oltre la Spagna, lo Stato pontificio, le repubbliche di Genova e di Venezia, il ducato di Savoia – promossa da Pio V per fronteggiare il pericolo turco nel Mediterraneo.

Il riconoscimento assegnato al Caracciolo ebbe larga eco in tutti gli ambienti dell’alta società del Regno, di quella napoletana in particolare. Fece notizia. Ma fece ancora più notizia, un anno dopo, l’assassinio che un suo congiunto di altissimo lignaggio, Carlo Gesualdo, principe di Venosa e conte di Conza – appartenente ad una delle famiglie più cospicue del Regno, discendente di Roberto il Guiscardo, della dinastia normanna degli Altavilla, e signore dell’omonimo feudo irpino, situato in posizione strategica, non molto distante dalla regia strada delle Puglie – ordinò ai suoi sicari della propria moglie, la bellissima Maria d’Avalos, che era anche sua cugina in quanto figlia di Sveva Gesualdo e di Carlo principe di Montesarchio e marchese del Vasto e di Pescara, sorpresa in flagrante adulterio con l’amante, il giovane Fabrizio Carafa duca d’Andria, nel palazzo di Sangro, in piazza San Domenico Maggiore a Napoli.

Così riportò l’episodio Antonio Bulifon, nella cronaca dei suoi Giornali di Napoli relativa al mese di ottobre del 1590: «La notte che divide il 17 dal 18 ottobre fu privato di vita D. Fabrizio Carafa duca d’Andria, giovin di bell’aspetto; essendosi esfrenatamente (non contento della bella e divotta sua moglie) dato agli amori di una donna di prima qualità [Maria d’Avalos], quale purtroppo condescese alla di lui libidine, dal marito di quella furono ambi ucisi nella propria camera, come viene più a longo scritto dal P. Marchese, già degnissimo vescovo di Puzuolo nel tomo IV del diario domenicano».

Dopo un soggiorno durato alcuni anni nel castello di Gesualdo, Carlo, che temeva la vendetta dei Carafa, si recò a Ferrara dove, nel febbraio del 1594, convolò a nozze con Eleonora d’Este, cugina del duca Alfonso II, legandosi così ad uno dei casati più potenti della penisola. Nella città estense ebbe modo di rafforzare – insieme col fido Scipione Stella, uno dei maggiori musici dell’epoca, e Cesare Caracciolo, noto cantante napoletano, che col cognato Ferdinando Sanseverino conte di Saponara, secondo marito della sorella Isabella, accompagnato dal fratello Fabrizio, facevano parte del suo seguito nel palazzo dei conti Nappi in via degli Angeli – la sua esperienza musicale attraverso il confronto con i grandi interpreti della stagione madrigalista secentesca che ebbe nei fiamminghi Cipriano de Rore e Giaches de Wert, nel ferrarese Luzzasco Luzzaschi, organista di corte, nel compositore bresciano Luca Marenzio e nel cremonese Claudio Monteverdi i più illustri rappresentanti a livello europeo.

Con loro, inoltre, in particolare con il Marenzio, il Luzzaschi ed il Monteverdi, Carlo contribuì al repertorio e alle esecuzioni del famoso «Concerto delle dame» ferraresi di cui facevano parte Tarquinia Molza, Lucrezia e Isabella Bendidio, Anna Guarini, Livia d’Arco, Vittoria Bentivoglio, Leonora da Scandiano e Laura Peperara, amata, quest’ultima, da Torquato Tasso. E proprio il grande poeta di Sorrento, cui era legato da stretta amicizia e con il quale diede vita ad un pressoché ininterrotto sodalizio culturale, Carlo avrebbe voluto condurre nella città emiliana se ad opporsi a tale intendimento non fosse stato lo stesso duca Alfonso piccato del fatto che Torquato – che pure gli aveva scritto una lettera con cui preannunciava la sua intenzione di tornare a Ferrara col principe di Venosa – avesse deciso di dedicare ad un Aldobrandini, nipote del papa, la nuova edizione della Gerusalemme prima dedicata alla famiglia estense.

Presso la stamperia ducale di Vittorio Baldini, Carlo compose – in molti casi con testi scritti da Torquato Tasso – la maggior parte dei suoi madrigali che, una volta ritornato nel feudo irpino, sottopose ad uno scrupoloso labor limae.

Fu, comunque, quello del rientro e della permanenza nell’avita dimora, un periodo di apparente tranquillità perché un nuovo scandalo, dopo il duplice assassinio di cui il principe si era macchiato, stava per scoppiare.

Siamo nel 1603: Carlo si ammala e i medici non riescono a venir a capo del suo male. Del suo strano malanno viene accusata Aurelia D’Errico, detta la «bionda», una fattucchiera con la quale, prima del matrimonio con Eleonora d’Este, aveva avuto una relazione. Contro di lei e la sua complice, Polisandra Pezzella, una vera e propria janara, una strega in grado di scatenare, secondo l’opinione popolare, il più terribile dei malocchi, vengono lanciate accuse di stregoneria e di veneficio.

Secondo quanto riferito da Cesare Staibano, governatore di Gesualdo, e da Tommaso Tannini vescovo di Frigento, la «bionda» aveva dato «a bere il suo sangue mestruo seu dela purga al Principe» vantandosi, senza peli sulla lingua, delle sue capacità amatorie: «Che mi vuol fare la principessa! Il principe sarà dalla centura a bascio lo mio, et dalla centura ad alto dela principessa».

Anche per questo fu rinchiusa a lungo nei sotterranei del castello insieme con la Pezzella. Su di loro pendevano accuse pesanti. Roba da Santa Inquisizione. Della torbida vicenda, infatti, avevano già incominciato ad interessarsi i giudici del Sant’Uffizio quando l’avvenuta guarigione del principe, grazie all’intervento dei medici di casa d’Este, e le forti pressioni esercitate dalla potente famiglia sull’allora viceré Juan Alonso Pimentel de Herrer  conte di Benavente fecero sì che l’eco di questo nuovo scandalo non superasse i confini del piccolo feudo di Gesualdo. Tutto fu messo a tacere e anche delle due fattucchiere non si seppe più nulla.

Una volta guarito, Carlo poté ritornare alla sua passione che rimaneva la musica. Con la collaborazione dei maggiori musicisti dell’epoca, tra cui Giovan Pietro Cappuccio, Fabrizio Filomarino, Rocco Rodio, Scipione Stella, Giovanni de Macque, Scipione Dentice, Scipione Cerreto, Stefano Felis e Giovanni Leonardo Primavera, fondò a Napoli un’accademia con una «Camerata di propaganda per l’affinamento del gusto musicale».

Soprattutto con i due maestri pugliesi Pomponio Nenna, che aveva curato la sua educazione, e Muzio Effrem, appartenente ad una nobile famiglia di origine milanese trapiantata a Bari e rimasto al suo servizio – dopo una breve esperienza come maestro di cappella del duca di Mantova – per oltre vent’anni, diede vita ad una vera e propria scuola, allestendo nella sua dimora principesca numerosi concerti in cui egli stesso si esibiva come suonatore di liuto e arciliuto.

Fu, questo, un periodo molto fecondo dal punto di vista della produzione artistica dal momento che Carlo – sulla scorta dell’esperienza fatta a Ferrara – provvide ad attrezzarsi di una tipografia per la pubblicazione dei nuovi testi musicali, i Responsoria e le Sacrae cantiones, che, insieme con gli ultimi due libri dei madrigali, andava allora componendo e che affidò alle mani esperte di un maestro del settore, il napoletano Giovanni Giacomo Carlino.

 

 

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