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    03/07/2024

Religione e società nel Mezzogiorno attraverso gli archivi parrocchiali

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L'abbazia di Sant'Angelo ad Orsara di PugliaL’esame dei libri parrocchiali di Orsara di Puglia, oggi in provincia di Foggia, nel passato in provincia di Avellino, offre la possibilità di alcune riflessioni su una fonte per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno. Gli archivi parrocchiali, per l’antichità dei documenti che conservano, rappresentano una fonte privilegiata per lo studio della demografia storica. Sono il cuore di una comunità: lì si conservano i documenti che svelano le vicende e le culture delle famiglie, dell’organizzazione sociale, dell’economia e della parrocchia, registrando, documento per documento,  i piccoli e grandi fatti che hanno costruito la storia di una collettività.

Pertanto sono un patrimonio di straordinario e ineguagliabile valore e rivestono una particolare rilevanza ai fini della memoria storica delle piccole comunità locali, le cui vicende sono non di rado difficilmente ricostruibili attraverso fonti di diversa provenienza. Molto spesso negli atti di battesimo, di matrimonio e di morte, si trovano notizie di attualità, cronache, che il parroco redigeva, indipendentemente dagli atti stessi, in occasione di eventi importanti, di gravi calamità (terremoti, epidemie, guerre …).

Per gli anni antecedenti l’istituzione dell’anagrafe, i registri parrocchiali costituiscono l’unica fonte per studi di storia sociale. Notevole è l’interesse che i registri rivestono anche per l’analisi della mentalità religiosa delle popolazioni locali. Fra i vari documenti che si possono trovare in un archivio parrocchiale, vi sono appunto i registri, la cui compilazione e tenuta fu regolamentata in una sessione del Concilio di Trento del 1563. Successivamente la materia ottenne una sistemazione più organica con la costituzione Apostolicae sedis del 1614, in base alla quale il pontefice Paolo V riaffermò i provvedimenti emessi precedentemente, introducendo le medesime regole anche per la redazione dei registri dei defunti e degli stati d’anime. Pur con i limiti presenti in ogni innovazione è dai registri parrocchiali che inizia, dunque, quel processo costitutivo delle fonti istituzionali, prima religiose poi laiche, volte alla registrazione dei fenomeni demografici.

Almeno fino a tutta l’epoca moderna gli “stati delle anime” costituiscono per gran parte dei Comuni la documentazione demografica più frequente e diffusa per la valutazione dell’evoluzione della popolazione. Ma la loro importanza non viene meno anche per l’intero corso dell’Ottocento, durante il quale si gettano gradualmente le basi dei moderni servizi statistici pubblici. La funzione originaria ed ufficiale dello “stato delle anime” era quello di registrare l’adempimento del precetto pasquale. Tradizionalmente veniva effettuato prima di Pasqua in occasione della benedizione delle case quando il parroco visitando ogni focolare scriveva in un apposito registro i nominativi dei singoli componenti, la loro età, lo stato civile, la posizione rispetto ai vari sacramenti.

L’elencazione nominativa degli abitanti delle singole parrocchie raggruppati secondo i nuclei familiari di appartenenza accresce la portata scientifica degli “stati delle anime”, in quanto rende possibile lo studio di aspetti importanti della struttura familiare della popolazione sia dal punto di vista demografico che da quello economico-sociale. Il registro dei battesimi ha sempre contenuti scarni; oltre al battesimo solenne amministrato dal sacerdote in chiesa, vi era il “battesimo privato” che una volta, quando il parto avveniva sempre in casa, era operato dalla levatrice se riteneva che vi fosse imminente pericolo di morte del neonato.

Consultando il libro dei battesimi si può condurre uno studio sull’onomastica locale. Riguardo ai figli di ignoti e alla mortalità infantile si hanno molti casi. I figli nati fuori dal matrimonio venivano battezzati e registrati con il nome della madre seguito dalla dicitura: “e il padre non si sa”. La scelta del luogo dove disfarsi del neonato riguardava il sagrato della chiesa, un convento la “ruota”, una taverna, luoghi dove facilmente erano ritrovabili per un pietoso soccorso.

I cognomi fittizi di illegittimi si riferivano o all’atto del “mettere fuori” e quindi all’esposizione (come Esposito), al luogo di provenienza o del quartiere in cui il cui neonato era stato trovato (come Del Forno, Della Piazzetta, Tufara, del Lavinaro, Della Vigna), al periodo dell’esposizione (come Vendemmia), ai fiori (come Del Gelsomino, Del Giglio), alle festività (come Delle Palme, Epifania, Natale), alle stagioni o fenomeni atmosferici (come Primavera, Buontempo, Canicola, Del Sole, Della Neve, Nebbia), ai mestieri (come Fabro), alla provenienza (come Di Panni, Venezia, Urbino), ai mesi (come Februario, Di Maggio). Talvolta erano nomi di buon auspicio per la vita del fanciullo (come Buonasorte, Della Fortuna, Fortunato, Della Speranza, Speranza) o evidenziavano doti morali e comportamentali (come Brillante, Gentile, Giulivo, Giusti, Serenità). Tutti i bambini venivano battezzati appena nati come si può desumere dalle annotazioni che sono: “nato il dì precedente”, “nato la mattina precedente”.

Il Concilio di Trento segna una data importante nella storia del matrimonio perché definisce questo sacramento e pone fine ad una lunga serie di controversie. Si stabilì l’obbligo delle tre pubblicazioni, da leggere in chiesa per tre domeniche consecutive, che la cerimonia fosse officiata dal parroco alla presenza di due testimoni. I matrimoni contratti di nascosto o senza pubblicazioni furono considerati clandestini. Di particolare interesse risulta l’esame dell’andamento stagionale della nuzialità. In alcuni mesi vi erano più matrimoni e per le classi più povere sussisteva anzitutto il condizionamento economico, come la necessità di dover attendere il tempo del raccolto o la vendita dei prodotti. Altrettanto decisivi nel concorrere a fissare la data di nozze erano i motivi di carattere religioso; nei periodo coincidenti con la Quaresima o con l’Avvento si avevano contrazioni di matrimonio.

Gli atti di morte  sono i più ricchi di notizie. Molti i casi dei non residenti morti in un altro territorio e spesso si trovano formule come “mortuus est in itinere” oppure “inventus mortuus intus hanc terram”. Morte che poteva capitare a uno zingaro, a un viaggiatore, a un brigante, a chiunque si trovasse in itinere. Era abitudine dei parroci indicare anche la causa del decesso. Il campionario delle morti improvvise è interessante anche dal punto di vista sociosanitario: moriva per “essere stata sorpresa da goccia nel parto”, “causa di un male ripentino”, “oppresso da un tocco apoplettico”.

Sono descritti con dovizia di particolari i casi di rifiuto personale di ricevere i sacramenti o i casi di rifiuto da parte dei parenti: “il parroco fu impedito dalla famiglia di avvicinarsi al letto di costei”.

La più comune causa che provocava la mala morte va ricercata nella violenza. La frequenza dei delitti è impressionante. Essi venivano commessi anzitutto con armi da fuoco, con arma bianca (coltello, accetta, …), con armi improprie (bastoni,…). Gli omicidi nelle campagne dimostrano che l’odio covava tra la gente e aveva il suo epilogo in agguati in luoghi poco frequentati. Alla raccolta del grano, per questioni di interessi, le aie diventavano spesso luoghi di omicidi. Teatri di efferati delitti spesso erano le pubbliche piazze tra la gente. Oltre ai delitti occasionali o di gelosia o di faida locale avvenivano quelli lungo le strade maestre provocati da bande organizzate come per il brigantaggio. Si moriva anche, naturalmente, per l’incidente occasionale: per la caduta da un albero, da una rupe, per il calcio di un cavallo o il capovolgimento di un carro. Diverse morti erano provocate da fulmini e dall’annegamento nei fiumi. C’erano poi gli eventi catastrofici, che mietevano centinaia di vittime. Per la carestia del 1764 ad Orsara, ad esempio, morirono 417 persone e il colera del 1837 con 972 cittadini e le vittime furono 296.

 

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