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    03/07/2024

Mezzogiorno, proprietà fondiaria e nascita del brigantaggio

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Nella foto: Ferdinando IV, Stefano Castagnola e i componenti della banda CarboneNegli ultimi anni si è andata sempre più affermando una corrente di pensiero che individua la reazione filoborbonica quale causa di origine del brigantaggio nelle regioni del Regno delle Due Sicilie, e, soprattutto, nelle aree interne dell’Appennino meridionale. È una tesi che è inevitabilmente alimentata dalle tensioni crescenti tra il Nord ed il Sud del Paese e dagli evidenti squilibri che rendono drammaticamente ampio il gap esistente tra le due macroaree.

Una storiografia compiacente e di fatto “revisionista” sollecita la nostalgia di quanti riconoscono alla dominazione borbonica quel carattere illuminato che, viceversa, sarebbe sconosciuto ai selvaggi Savoia. Nelle pagine di illeggibili libelli il Regno delle Due Sicilie viene rappresentato come il Paese di Bengodi, con un bilancio ricco ed una industrializzazione in crescita. In questo paese incantato la “conquista” sabauda, agevolata dal “tradimento” dei generali dell’esercito borbonico, diventa il fattore determinante della nascita di un movimento insurrezionale, il brigantaggio, che ha per obiettivo la restaurazione del vecchio regime. Questa suggestiva ricostruzione dei fatti, che – purtroppo – trova un numero sempre maggiore di proseliti persino sui social network, si sostanzia in una vera e propria mistificazione se appena si considerano le note biografiche dei capi delle bande e gli obiettivi delle loro azioni. Chi, invece, non crede alla favola dei briganti buoni patrioti si limita a qualificare il brigantaggio come un fenomeno puramente delinquenziale.

Sennonché, il brigantaggio, lungi dall’essere un movimento politico tout court o una sorta di associazione a delinquere di stampo mafioso, fu certamente un fenomeno che in alcune zone, soprattutto agli inizi degli anni Sessanta dell’Ottocento, riscontrò il consenso (o, quantomeno, l’acquiescenza) di alcune tra le frange più umili della popolazione, e soprattutto dei contadini.

Furono certamente molteplici le cause che determinarono, in alcuni periodi e in alcune regioni, la trasformazione di un fenomeno delinquenziale in una forma di protesta delle popolazioni rurali. Tra le tante, tralasciando quelle di natura socio-culturale, un rilievo notevole assunsero quelle di natura economica, che, a loro volta, erano strettamente collegate alle politiche di gestione della proprietà fondiaria in rapporto alla quotizzazione dei terreni demaniali e all’esercizio degli usi civici. Già alla fine del Settecento, però, il sostanziale abbandono di consistenti porzioni del latifondo e del demanio impose l’adozione di provvedimenti legislativi atti a favorire l’impiego più redditizio delle risorse agricole.

Nel 1792 Ferdinando IV emanò la Prammatica XXIV con cui autorizzò la quotizzazione dei terreni demaniali (sia universali che feudali) e l’assegnazione in enfiteusi ai contadini “meno provveduti di terra…nella misura che possano coltivarli colla propria opera”. Conseguenza diretta di tale provvedimento fu la soppressione di gran parte degli usi civici, che, però, sarebbe stata compensata dall’assegnazione di altri terreni demaniali alle Università, che ovviamente avrebbero dovuto metterli a disposizione dei cittadini. Simili misure riscontrarono lo scontento degli aristocratici (privati del demanio feudale) sia della borghesia (privata dell’esercizio degli usi civici).

I principi ispiratori di questa riforma agraria ante litteram (quotizzazione dei terreni demaniali e soppressione degli usi civici) sopravvissero ai vari mutamenti politici che si verificarono nella prima metà dell’Ottocento: nascita della Repubblica partenopea; affermazione del regime napoleonico; restaurazione borbonica. Di fatto, però, essi non furono mai attuati, o, quantomeno, furono applicati in ritardo e in modo assolutamente distorto. Nell’attesa annosa del completamento delle operazioni di quotizzazione i Comuni assegnarono in locazione i terreni demaniali a nobili e ricchi proprietari terrieri. E quando le operazioni furono ultimate, ai contadini furono assegnati lotti piccoli (dai 2 ai 4 tomoli) e, quindi, assolutamente insufficienti a garantire il sostentamento dei loro nuclei familiari. Le loro condizioni erano ancora più precarie di prima. La soppressione degli usi civici sui terreni di provenienza feudale inibiva lo sfruttamento di questi fondi per alcune attività (pascolo, erbatico, legnatico) che integravano gli ordinari mezzi di sussistenza. D’altra parte, i Comuni, anziché destinare all’esercizio degli usi civici la quota di terreni demaniali che era stata loro direttamente assegnata, spesso tollerarono che fossero usurpati dai grandi proprietari terrieri. A ciò si aggiunga, infine, che ai contadini assegnatari non furono garantite le risorse necessarie per la coltivazione dei fondi loro assegnati, di modo che nei primi anni, quando i raccolti non erano ancora sufficienti a garantire il sostentamento, essi furono costretti a contrarre prestiti onerosi e, da ultimo, a cedere tutti i loro beni (compreso il terreno assegnato) ai creditori. I braccianti, che a fatica e con inenarrabili stenti avevano ottenuto un terreno da coltivare in proprio, furono costretti a cederlo per, poi, ridiventare braccianti e vivere in condizioni ancora peggiori. Furono questi i motivi che nel 1848 scatenarono le agitazioni contadine nelle campagne meridionali, ben prima che avesse origine il fenomeno “brigantaggio”.

Erano queste le premesse del rapporto tra contadini ed establishment politico ed economico esistenti all’atto del processo di unificazione nazionale. Con l’avvento del nuovo sovrano il proletariato rurale, in parte illuso dai proclami della élite risorgimentale, riteneva di poter ottenere finalmente un’equa ridistribuzione dei terreni demaniali. Sennonché, il mutamento del regime non si tradusse nel rinnovamento della classe dirigente, che continuava ad osteggiare il processo di quotizzazione. Da qui il sostegno dei contadini alle bande dei briganti: “il brigante non fa male alcuno al cafone … si rivolge sempre contro il signore”. Sono queste parole di Stefano Castagnola, componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, a chiarire i contorni della questione. E lo stesso parlamentare aggiungeva che nelle province meridionali “non vi sono che due classi di persone, quasi due caste, i proprietari, i galantuomini, ed i proletari, i cafoni. Vi manca generalmente il medio ceto”, di modo che tra le due classi “vi è una specie di guerra, di astio, di odio di colui che ha niente e che si considera vittima ed oppresso, contro quello che ha”. Purtroppo, però, alla lucida analisi del fenomeno non seguì un’efficace politica di soluzione della questione contadina. Anzi, avallando la teoria del complotto borbonico e papalino, la classe dirigente politica del Regno d’Italia si preoccupò solo di reprimere il brigantaggio, introducendo una legislazione speciale che prevedeva l’adozione di misure draconiane.

Col passare degli anni il consenso dei contadini venne meno, sia a causa della spietata repressione (che coinvolse anche le famiglie e semplici conoscenti dei briganti), sia a causa della rapida deriva delle bande che si rivelarono associazioni di criminali capaci di atrocità non meno gravi di quelle di cui si rendevano autori i conquistatori piemontesi. Il processo di riforma della proprietà fondiaria si bloccò definitivamente. Riprese il suo corso solo nel Novecento, nell’immediato secondo dopoguerra, e anche in quel caso fu avviato sull’onda dei moti contadini che scoppiarono nell’area appenninica.

La storiografia ufficiale, scritta dalla intellighenzia culturale del Ventennio, continuò a qualificare i sostenitori dei briganti come semplici delinquenti; la storiografia revisionista, quella dei nostalgici di una “età dell’oro” borbonica che – in realtà – non è mai esistita, individuò nei briganti gli ultimi paladini dell’orgoglio delle genti del Sud, vilipese e maltrattate dal barbaro invasore piemontese.

 

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