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    03/07/2024

La battaglia di Pianodardine nella guerra tra francesi e spagnoli

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La Capitanata in una stampa del XVIII secoloIl conte di Avellino, Troiano Caracciolo, vista irrimediabilmente perduta la causa di Renato d’Angiò, passò dalla parte di Alfonso d’Aragona, tanto che egli figurava al seguito del re quando questi, il 2 giugno 1442, fece il suo solenne ingresso in Napoli. Le cose cambiarono con il successore di Troiano, il secondogenito Giacomo Caracciolo, di carattere piuttosto volubile, il quale fu autore di una serie di voltafaccia che gli attirarono la vendetta dell’aragonese. Nel 1460, infatti, egli aderì al partito angioino. Dichiaratosi, però, di nuovo fedele ad Alfonso, non persistette a lungo in questa sua resipiscenza schierandosi con Giovanni d’Angiò, figlio di Renato, che aveva posto il suo accampamento nei pressi di Guardia Lombardi. Per punirlo il re Ferdinando I d’Aragona, detto Ferrante, successore di Alfonso di cui era figlio naturale (donde l’appellativo di Bastardo), occupò gran parte delle terre del Caracciolo con tristi conseguenze per quei territori. Il 26 novembre 1460, infatti, il re era in Irpinia presso le mura del castello di Paternopoli che allora si chiamava Paterno; pose, quindi, a ferro e a fuoco Taurasi e minacciò della stessa fine tutti i feudi del Caracciolo se questi non fosse subito rinsavito. Al nuovo giuramento di fedeltà, il re volle mostrarsi generoso perdonandogli la sua slealtà e restituendogli tutti i beni.

Erano, però, quegli anni particolarmente difficili per il Regno di Napoli con i più alti funzionari e i maggiori feudatari meridionali alleati insieme contro Ferrante nella congiura detta dei baroni. Nel 1485 il conflitto tra la corona e il baronaggio era aperto. Insieme con Antonello Sanseverino principe di Salerno, Pirro del Balzo principe di Altamura, Girolamo Sanseverino principe di Bisignano, Pietro Guevara marchese del Vasto, Andrea Matteo Acquaviva principe di Teramo, Giovanni della Rovere duca di Sora e prefetto di Roma, Angliberto del Balzo duca di Nardò e conte di Ugento, Antonio Centiglia marchese di Cotrone, Giampaolo del Balzo marchese di Noia, Piero Bernardino Gaetani conte di Morcone, vale a dire il fior fiore della nobiltà del Regno, appoggiati da papa Innocenzo VIII, Venezia e Genova, si mosse anche il grande potentato economico con in testa Francesco Coppola, ricchissimo conte di Sarno, che in passato aveva avuto relazioni commerciali con Ferrante. Addirittura scese in campo il segretario del re, quell’Antonello de Petruciis o Petrucci che, benché di origini contadine, entrato dopo un tirocinio presso lo studio del notaio Giovanni Ammirato di Aversa nella cancelleria regia di Alfonso I d’Aragona guidata dal notaio-segretario Giovanni Olzina che si avvaleva della dottissima collaborazione di Lorenzo Valla (1407-1457), era riuscito a rivestire vari incarichi a corte fino ad avere il titolo di barone e l’investitura di conte di Policastro.

Alla congiura non rimasero estranei i Caracciolo, Giacomo conte di Avellino e il fratello Giovanni duca di Melfi. Contro di loro, così come contro gli altri ribelli, la repressione di Ferrante, che era riuscito ad avere la meglio grazie all’intervento di Milano e Firenze, fu particolarmente crudele e sanguinosa: Giovanni, invitato nel luglio del 1487 a Napoli, fu rinchiuso in carcere in Castelnuovo e  messo a morte mentre Giacomo si salvò con la fuga fuori dei confini del Regno, morendo poi in esilio alcuni anni dopo. La contea di Avellino, che allora comprendeva anche il territorio di Gesualdo, fu inserita nel regio demanio fino a quando, qualche anno dopo, non fu venduta ad uno spagnolo, Galcerando de Requesesens conte di Trivento, ammiraglio generale della marina regia, nel linguaggio del popolino ribattezzato col nome di Ricchisenza. Durante un suo viaggio ad Avellino, si vuole che, in questo periodo, il re abbia ordinato di costruire una cappella nella chiesa di San Giacomo, successivamente trasferita, in seguito alla fine rovinosa della stessa, in quella dello Spirito Santo, poi detta di Santo Spirito.

Morto il 25 gennaio 1494 re Ferdinando, che era riuscito ad offrire presso la sua corte amicizia ed ospitalità a Lorenzo de’ Medici scampato miracolosamente alla congiura dei Pazzi e divenuto poi il gran tessitore della politica italiana, seguì un periodo di governi instabili per cui, in sette anni, si succedettero ben sei regni. Ora in questo rapido succedersi di sovrani sul trono di Napoli, sarebbe un’utopia il voler indagare su loro visite nelle terre irpine, e non in queste soltanto, a meno che non volessimo ad ogni costo tener dietro a rapidi viaggi compiuti lungo l’itinerario da Napoli in Puglia, con destinazione Foggia e ritorno. È invece importante sottolineare che il partito filofrancese non si era mai estinto nelle terre baronali e meno ancora in Irpinia. Sulla fine del 1495 in Principato Ultra predominava il partito filofrancese, tanto che le forze armate di Ferrandino si erano dovute fermare prima di Montoro, di qua dalla “montagna di Lauro”. L’anno seguente questi partigiani degli Angioini assalirono, presero e incendiarono Lioni come pure occuparono Gesualdo e Paternopoli. Come questo stato generale di cose toccasse molto da vicino Avellino si comprende subito quando si riflette che ad Atripalda vi erano gli Spagnoli mentre ad Avellino dominavano i Francesi.

Una situazione di confusione e di scarsa chiarezza, questa, venutasi a creare in seguito all’accordo segreto di Granata dell’11 novembre del 1500 stipulato tra Luigi XII e Ferdinando il Cattolico per la divisione del Regno di Napoli. In base a tale patto, al sovrano francese furono assegnate Campania ed Abruzzo, a quello spagnolo Puglia e Calabria. Nessun riferimento, però, era stato fatto all’attribuzione delle province intermedie del Molise, della Basilicata, dei territori dei due Principati – il Principato Citra e il Principato Ultra – e in particolare della Capitanata, ovvero la Puglia piana, su cui entrambe le fazioni intendevano estendere il proprio dominio.

Era questa terra – corrispondente all’antica Apulia Daunia, compresa tra il corso del Fortore e quello dell’Ofanto, al confine con il territorio irpino del Principato Ultra, lungo l’importante asse viario che collegava il Tirreno con l’Adriatico – molto appetibile sul piano economico essendo luogo di passaggio delle greggi abruzzesi che numerose, durante il periodo della transumanza, scendevano dai monti per svernare nella pianura pugliese ricca di erba per i pascoli oltre che di grano. Esisteva, infatti, una vera e propria “dogana delle pecore” che veniva gestita da un ministro o presidente della Camera regia a Foggia, il centro più importante della Capitanata e sede di una fiera agricola che risultava sempre molto redditizia per le casse reali. Ingenti, infatti, erano le tasse che si dovevano pagare al dazio per consentire il passaggio, la sosta ed il pascolo delle greggi.

Per rendere ancora più proficuo questo settore legato alla pastorizia, re Alfonso I fece trasferire dalla Spagna alla Puglia la razza migliore delle pecore. Redditizio anche l’allevamento dei cavalli. Gli antichi scrittori lodavano nelle loro opere la grande produzione di frumento e di lana. Strabone, storico e geografo greco, originario di Amasea, nel Ponto, e vissuto a Roma fra il principato di Augusto e quello di Tiberio, così scrive della Daunia: “Tutta questa terra è fertile e produce ogni genere di prodotti; inoltre è la migliore per l’allevamento di cavalli e delle pecore. La lana che si produce è più morbida di quella di Taranto, ma meno lucida. La terra è ben riparata perché le pianure sono avvallate”. Varrone, erudito e poligrafo latino originario di Rieti, amico di Pompeo e di Cesare, che lo nominò sovrintendente delle biblioteche pubbliche, nella prefazione del De re rustica afferma che l’Apulia possedeva grandes oviarias, grandi greggi di pecore. Notizia, questa, confermata da Columella, scrittore latino del I secolo d.C. vissuto al tempo di Nerone, di origine spagnola (era di Cadice), anche lui autore di un trattato in 12 libri dal titolo De re rustica in cui esalta la vita rurale e gli antichi ideali georgici cantati da Virgilio. Grande pure, in questo vasto territorio, la produzione di grano e di orzo con cui si rifornivano non solo i regi fondachi, ma anche quelli di molte città d’Italia. Con l’impasto di farina grossa e acqua si otteneva del pane, detto schiavonesco, particolarmente saporito per la presenza di pepe, cannella e aromi vari e, per questo, molto  richiesto sui mercati e sulle tavole.

A chi apparteneva, dunque, questo territorio così importante sul piano degli introiti daziari (il reddito annuo proveniente dalla sola dogana delle pecore era calcolato in 200.000 scudi)? In quanto legata all’economia pastorizia dell’Abruzzo, la Capitanata, secondo i Francesi, costituiva parte integrante di quella regione. Di opinione opposta gli Spagnoli che la consideravano strettamente unita alla Puglia su cui, in base al patto stipulato, cadeva la loro giurisdizione. Di qui, inevitabile, lo scontro fra le due fazioni anche in territorio irpino nonostante qualche tentativo di mediazione.

Siamo nel mese di giugno del 1502: i due eserciti, quello francese di stanza ad Avellino, quello spagnolo ad Atripalda, si fronteggiarono a metà strada, nella piana di Pianodardine, con manovre fino ai primi pendii di Montefredane, nel corso di un’aspra ed accanita battaglia con i due schieramenti intenzionati a superarsi senza esclusione di colpi. Ci furono perdite rimarchevoli dall’una e dall’altra parte. Tra le file degli spagnoli fece notizia la morte di un valido condottiero, il capitano di fanteria Escalada che, nel mese di maggio di quello stesso anno, aveva presidiato, insieme col collega Ochoa d’Assuna, la roccaforte di Nusco situata in una posizione d’altura.

Su richiesta delle parti, essendosi lo scontro protratto a lungo, ci fu una tregua di quindici giorni. I francesi però, cui s’era aggiunta proveniente da Aversa la colonna del generale Robert Stuart D’Aubigny, ne approfittarono per saccheggiare e conquistare il castello di Tufo.

Ben presto i Francesi, premuti dagli Spagnoli, furono costretti ad abbandonare la città di Avellino e dopo la sconfitta di Cerignola del 28 aprile 1503 –  in cui perse la vita, colpito da una pallottola di archibugio, il comandante in capo delle forze francesi, Luigi d’Armagnac duca di Nemours – e quella del Garigliano del dicembre dello stesso anno, cui seguì la resa di Capua, di Aversa e della stessa Napoli, si ritirarono da tutto il Regno che ricadde interamente in potere degli aragonesi in seguito al trattato di pace del 1506.

Nell’ambito di questa campagna militare ebbe luogo, il 13 febbraio di quel decisivo 1503, l’episodio della “disfida di Barletta” che ispirò, in epoca risorgimentale, l’Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio. Avendo gli spagnoli, impegnati nell’assedio della cittadina pugliese, in prossimità della foce dell’Ofanto – l’antico Aufidus cantato da Orazio che nasce dai monti dell’Irpinia – fatto prigionieri un gran numero di soldati francesi e i loro ufficiali, uno di questi, Guy de la Motte, dopo aver elogiato gli spagnoli, offese l’onore militare degli italiani con l’accusa di vigliaccheria. Di qui la reazione di Ettore Fieramosca – condottiero originario di Capua al servizio di Gonzalo de Cordoba,  comandante in capo dell’esercito spagnolo – che alla testa di 13 cavalieri italiani sconfisse 13 cavalieri francesi guidati dal de la Motte vendicando così l’offesa ricevuta.

 

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