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    03/07/2024

Riformisti e riformatori

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Da sinistra:Guido Dorso, Manlio Rossi Doria, Giustino Fortunato. In basso, Giuseppe Ciranna, Renato Cappa, Vittorio de Caprariis e Francesco CompagnaUn interessante ed attento libro Manlio Rossi-Doria: un riformatore del Novecento di Simone Misiani, un giovane studioso dell’Università di Teramo, meriterebbe di essere accuratamente approfondito proprio in Irpinia e nel Sannio dove, purtroppo, hanno prevalso i riformisti sui riformatori nel più rigoroso ed autolesionistico rispetto della logica gattopardesca che tutto sembri cambiare perché il tutto resti sempre come prima!

Questo perenne conflitto tra quanti – in buona o cattiva fede –  si manifestano favorevoli e, a volte, addirittura sinceri fautori dell’attuazione di reali riforme e quanti, invece, non hanno alcuna esitazione a rimboccarsi le maniche e, sulla base di attente e scrupolose analisi, decidono di impegnarsi direttamente nella non facile opera di consentire che le cose cambino veramente.

Tra i primi, prevalgono quanti preferiscono ergersi a vigili militanti di determinate ideologie, non sempre conciliabili con gli effetti di un reale mutamento; ma, più spesso, gelosi fruitori di un elettorato facilmente influenzabile ed in grado di consentire loro l’esercizio di un determinato potere, non sempre del tutto negativo.

Gli altri, invece, più spesso, pur consapevoli di essere le eterne avanguardie di un esercito minoritario e disarmato, non esitano ad intestardirsi nel voler prestare continua testimonianza di un diverso approccio alla realtà concreta e, soprattutto, ai suoi limiti ed alle sue difficoltà.

Non sempre i primi possono essere accusati di tradire quella che dovrebbe essere la missione propria di chi accetti di rendersi interprete attivo delle necessità della base che ha conferito loro, oltre al potere, anche la responsabilità di rappresentarli adeguatamente nelle dovute sedi decisionali. Così come non sempre si può far colpa ai secondi se i loro sforzi non sono riusciti a concretizzarsi in effetti sostanziali: a volte, per non aver attentamente valutate le difficoltà, soprattutto politiche, che si sarebbero dovuto affrontare; altre volte, per non aver voluto cedere su aspetti marginali che, però, mai e poi mai avrebbero dovuto inficiare il valore stesso dell’azione da intraprendersi; altre, infine, per non aver curato, con analogo impegno, anche la stessa modernizzazione delle coscienze dei protagonisti diretti ed indiretti.

Nell’analisi fatta da Misiani, prendendo le mosse dagli sforzi fatti da Nitti, Salvemini e don Giustino Fortunato quando il nostro Paese cominciò a vivere la propria esperienza unitaria, si perviene al momento più entusiasmante della politica attiva e riformatrice del glorioso Partito d’Azione per, poi, giungere alle stimolanti sfide degli anni ’50, dopo la seconda guerra mondiale.

Di quest’ultima fase non si può non ricordare l’apporto datovi dall’irpino Guido Dorso: a partire dalla sua relazione al I Congresso meridionalista di quel Partito (dicembre 1944, a Bari: quindi, prima ancora che tutta l’Italia fosse liberata!) su La classe dirigente meridionale che, poi, fu ripresa ed ampliata nel suo volume Dittatura, classe politica e classe dirigente (Einaudi, Torino1949) dopo l’approvazione della nostra Costituzione repubblicana. In quell’occasione, la relazione di Dorso fu seguita da quella di Manlio Rossi-Doria su Struttura e problemi dell’agricoltura meridionale.

Per quanto strano possa apparire, oggi, entrambe le relazioni sono tuttora valide e propongono sempre l’ineludibile necessità che, soprattutto su questi due fronti, si debba avere il coraggio di insistere se veramente si vuol perseguire un reale e durevole mutamento della nostra società meridionale. Ancora oggi – e, forse, soprattutto oggi – sono indispensabili i famosi cento uomini di acciaio reclamati da Dorso, così come l’assicurare un’attiva e proficua interazione tra zone di osso (quelle interne, collinari e prevalentemente plioceniche) e zone di polpa (quelle pianeggianti, per lo più irrigue del quaternario).

Discorso che, con una tenacia meritevole di migliore sorte, fu continuato, negli anni ’60-’80, dalla combattiva tribuna di Nord e Sud (la rivista fondata da Chinchino Compagna con Vittorio de Caprariis e Renato Giordano) e, fino alla morte di Rossi-Doria (giugno 1988), dal suo Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, che nel 1960 era subentrato all’originario Gruppo di Portici, che tanto ruolo ebbe nelle vicende meridionali.

Ma, soprattutto, l’esempio più concreto – oltre agli interventi di riforma fondiaria, di bonifica e di sviluppo comunitario in tutto il Mezzogiorno – può ritrovarsi nel suo Piano di coordinamento territoriale per la Campania del 1960 e, ancor più, nel Piano di sviluppo per l’Alta Irpinia, redatto quando si candidò al Senato in quel collegio elettorale (1969).

Due esempi, ancora oggi validi, come la teoria possa fornire gli strumenti per aversi un’analisi puntuale dalla quale trarre gli elementi essenziali per un intervento concreto. E qui torna l’annoso problema del rapporto tra problemi della realtà, classe politica e classe dirigente, da una parte, e partecipazione attiva e responsabile delle popolazioni che, se opportunamente assistite ed affiancate, possono perfino trasformarsi in essenziali ed irrinunciabili collaboratori dei tecnici e dei politici.

Purtroppo, nel nostro Paese, nei confronti dei processi di mutamento, a seconda delle circostanze, si manifestano queste reazioni.

A volte, quando il mutamento fa paura o, peggio, rischia di intaccare certi privilegi, non si ha alcuna remora a rifiutarlo in toto: allora si è di fronte ad un mutamento negato. Altre volte, per carenza culturale o, peggio, per il prevalere di interessi specifici, ci si limita ad adottare procedure e sistemi di valori mutuati acriticamente da altri sistemi estranei al nostro, senza preoccuparsi dei danni che ne possono derivare (come nei casi della diffusione abnorme di costumi consumistici senza preoccuparsi che le persone abbiano i redditi per potervi far fronte senza frustrazioni): siamo al cospetto di un mutamento solo apparente. Quando, invece, si individuano opportunamente gli obiettivi da perseguire in modo sintonico con i nostri valori di fondo – ma non ci si preoccupa di fornire alle istituzioni, ai gruppi ed agli individui anche gli strumenti (tecnici, finanziari, economici, culturali) essenziali perché l’operazione possa avere il meritato e necessario successo – si ha un mutamento tradito.

L’unico mutamento veramente tale – e, quindi, reale – presuppone che gli obiettivi vengano individuati senza alcuna tragica rottura con il passato (le radici), senza perpetuare gli inconvenienti che determinano i ritardi e le incongruità nei confronti dell’ineludibile processo di globalizzazione (il presente) e, soprattutto, senza ignorare che le sfide si dovranno affrontare e vincere sempre (il futuro).

Quando, specialmente nel nostro Mezzogiorno, ci decideremo a mostrare un colpo di orgoglio che ci consenta di riscattarci e, in particolare, di poter guardare con maggiore fiducia al domani? Specialmente per le generazioni più giovani che, involontariamente, abbiamo tradite, visto che corriamo il rischio di togliere loro perfino la speranza nel domani?

 

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