AVELLINO – Sarà aperta fino al prossimo 26 maggio la mostra sulla figura e sull’opera di Carlo III di Borbone, a 300 anni dalla nascita, la cui inaugurazione è in programma dopodomani, alle 17:30, presso la sala blu del complesso monumentale dell’ex carcere borbonico.
Nel corso dell'evento, organizzato dall’Associazione culturale movimento neoborbonico e patrocinato dalla Provincia di Avellino, dalla Real Casa di Borbone delle Due Sicilie e dell'Ancci, con il supporto di Sertura Vini, Hotel Villa Calvo e Forchetta d'Oro Catering, sarà presentato il libro di Pino Aprile Carnefici. Con l’autore ne discuterà il prof. Gennaro De Crescenzo. Sull'opera di riforme di Carlo III nella cultura del Settecento riproponiamo lo scritto di Carlo Silvestri apparso sul nostro giornale nel gennaio del 2012.
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Con Carlo III di Borbone, don Carlos, primogenito di Filippo V e della sua seconda moglie Elisabetta Farnese, pronipote di Luigi XIV (erede del Ducato di Parma e Piacenza e del Granducato di Toscana a seguito della morte dell’ultimo Granduca, Gian Gastone dei Medici, morto senza figli e noto per la sua omosessualità), vengono aboliti i viceré e la capitale del Regno, Napoli, comincia di nuovo, dopo un periodo di crisi economica e di grigiore sociale, a funzionare e ad essere al centro di un processo di riforme che, anche se non del tutto attuate e non sempre adeguate ai numerosi e gravi problemi del vasto territorio meridionale, ancora sottoposto allo strapotere dei grandi latifondisti e dei baroni, portarono alla limitazione delle prerogative del clero (culminate, poi, in Spagna, nel 1767, nella clamorosa espulsione dei gesuiti e nella restrizione dei poteri dell’Inquisizione), alla riorganizzazione del catasto, all’incremento del commercio, delle manifatture, dei lavori pubblici.
In quest’opera di governo (dal 1734 al 1759), Carlo III, che, intanto, aveva sposato Maria Amalia di Sassonia, figlia poco più che tredicenne del re di Polonia Augusto III, si avvalse della stretta collaborazione di un Consiglio di Stato guidato da Manuel Domingo Benavides conte di Santostefano – che era stato suo precettore negli anni giovanili – e di cui facevano parte Giuseppe Gioacchino Salas marchese di Montealegre (Affari esteri), il toscano Bernardo Tanucci (Giustizia), il siciliano Giovanni Brancaccio (Finanze), don Gaetano Maria Brancone (Affari ecclesiastici), il piacentino Giovanni Fogliani Sforza d’Aragona e, successivamente, Gaetano Buoncompagni duca di Sora e principe di Piombino.
Tuttavia, il perdurare di strutture feudali e la presenza opprimente di una nobiltà gelosa dei propri privilegi nonché di un clero molto numeroso – come sottolineato in un vero e proprio «dossier» sulla società del Meridione da uno dei protagonisti dell’illuminismo napoletano, il sannita Giuseppe Maria Galanti, autore della Nuova descrizione storica e geografica delle Due Sicilie – condizionarono non poco la politica di riforme di Carlo III e del suo successore Ferdinando IV, politica che, grazie anche alla coraggiosa azione di governo del ministro Tanucci – già professore di diritto pubblico a Pisa, fautore di un giurisdizionalismo di chiara matrice laica (si deve peraltro a lui, convinto sostenitore del concetto nuovo e moderno di Stato che si andava affermando in quei decenni, l’abolizione dell’omaggio della chinea, cioè l’invio al pontefice di un cavallo bianco insieme con una cospicua somma di denaro in segno di accettazione del vincolo di dipendenza alla Chiesa di Roma) e, in campo economico, di uno sviluppo dei traffici e del commercio nel porto di Napoli, lì, al centro del Mediterraneo – fu animata e sostenuta da un gruppo di intellettuali di primo piano, il fior fiore dell’intellighenzia di allora, promotore di quel movimento riformatore che fece di Napoli, insieme con Milano e Firenze, uno dei centri principali della ripresa culturale nell’Italia del Settecento.
A guidare questo stuolo di «cervelli», intenzionato a favorire il rinnovamento politico, economico, sociale e morale del Regno con un programma che, oltre ad un maggiore rafforzamento dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, propugnava un’elevazione delle classi popolari mediante una giusta ripartizione della proprietà fondiaria e mediante un impulso all’educazione e all’istruzione, fu il sacerdote salernitano Antonio Genovesi.
Grazie al sodalizio culturale e all’amicizia con Bartolomeo Intieri – il matematico e economista fiorentino, esperto di macchine agricole, trapiantato a Napoli dove svolgeva l’incarico di amministratore dei beni che le grandi famiglie toscane dei Corsini, dei Rinuccini e dei Medici possedevano nel Regno – Genovesi divenne titolare della prima cattedra universitaria europea di economia politica.
Le sue idee, raccolte nelle Lezioni di commercio, ossia di economia civile, anche se non trovarono adeguato riscontro sul piano politico, furono riprese e seguite da numerosi discepoli tra cui il filosofo e uomo politico molisano Melchiorre Delfico, il pensatore lucano Francesco Mario Pagano, il patriota pugliese Domenico Forges-Davanzati, il letterato e critico partenopeo Pietro Napoli-Signorelli, l’abruzzese Troiano Odazi, i fratelli calabresi Domenico e Francescantonio Grimaldi, l’economista pugliese Luca Samuele Cagnazzi, il patriota còrso Pasquale Paoli.
Ma il gotha di quello che lo storico Franco Venturi ha definito il «partito genovesiano» – che rifacendosi alla piattaforma ideologica e al magistero culturale del filosofo e economista salernitano fu protagonista di quel «risorgimento» napoletano che ebbe riscontri e corrispondenze in Italia e in Europa – fu costituito, oltre che dal già citato Galanti, dall’abate teatino Ferdinando Galiani, autore del trattato Della moneta e dei Dialoghi sul commercio dei grani; dall’economista salentino Giuseppe Palmieri, direttore del Consiglio delle finanze e autore dei Pensieri economici e delle Osservazioni sui vari articoli riguardanti la pubblica economia; dal commerciante ed economista napoletano Carlantonio Broggia, di professione aromatarius, una sorta di droghiere all’ingrosso, componente del “gran triumvirato” di economisti napoletani con Genovesi e Palmieri e autore di un Trattato de’ tributi, delle monete e del governo politico della sanità; e, ancora, dal giurista Gaetano Filangieri, autore delle Riflessioni politiche e della Scienza della legislazione, animatore del processo di rinnovamento delle coscienze anche sui temi della riforma del sistema penale.
Né, nell’ambito del dibattito tutto illuministico relativo alla definizione dei rapporti tra i due massimi poteri, quello dello Stato e quello della Chiesa, con il conseguente inasprimento della politica del primo nei confronti del secondo in nome di quel giurisdizionalismo che mirava all’instaurazione di un nuovo sistema di relazioni e, soprattutto, ad impedire l’ingerenza del clero nella gestione della cosa pubblica, va collocata in secondo piano l’opera dello storico pugliese Pietro Giannone che, nella sua Istoria civile del Regno di Napoli, denunciando gli abusi della Chiesa nei riguardi dei poteri civili dello Stato, dimostrò, come ebbe a sottolineare Giovanni Gentile in un suo scritto apparso su La Critica, “quell’acuta coscienza dell’autonomia dello Stato”.
Questa linea meridionale improntata ad un rigoroso laicismo ebbe la sua espressione più alta nell’opera del filosofo Giambattista Vico, l’autore della Scienza nuova, che – con il suo sistema di pensiero fondato sulla conversione del verum e del factum, in un rapporto di reciprocità (verum et factum reciprocantur, seu convertuntur (“vero e fatto hanno un rapporto di reciprocità, si convertono) – seppe portare la vicenda culturale napoletana a livello europeo, gettando le basi di quella dimensione laica della cultura che avrà, prima in Francesco De Sanctis e Pasquale Stanislao Mancini, i due grandi irpini dell’Ottocento protagonisti della storia d’Italia all’indomani dell’Unità, successivamente in Benedetto Croce, gli esempi più alti e significativi.
Nel campo degli studi giuridici, peraltro, a dare lustro alla gloria del foro e dell’insegnamento universitario durante il regno di Carlo III ci fu anche l’irpino Francesco Rapolla, nato ad Atripalda nel 1701 da Angelo e da Maria Buccarelli, che, continuando la tradizione culturale già onorata dal suo conterraneo Filippo Bello (1666-1719), fu professore di Diritto canonico, diritto romano fino a ricoprire quella cattedra di Diritto civile che, con un vero e proprio colpo di mano, era stata incredibilmente negata al Vico dai “baroni” dell’ateneo partenopeo. Molti e di prestigio anche gli incarichi in magistratura: giudice della Vicaria, segretario della Real Camera di Santa Chiara, presidente della Regia Camera, Consigliere del Supremo Tribunale Misto. Fu inoltre governatore di Pozzuoli, Taranto, Ariano. Morì a Napoli nel 1762.