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    03/07/2024

Palazzo Trevisani, quel portone chiuso quarantuno anni fa

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Nella storia dell’edificio la storia dell’urbanistica ad Avellino

Palazzo Trevisani negli anni OttantaAVELLINO – Quel portone chiuso quarantuno anni fa e mai più riaperto su Corso Vittorio Emanuele, la principale strada di Avellino, ha rappresentato per quasi mezzo secolo l’emblema della rinuncia della borghesia (ed anche dell’imprenditoria) avellinese a saper guardare agli interessi ed al futuro della città. L’ottocentesco Palazzo Trevisani, pessimamente “ripulito” dieci anni prima del suo abbandono, è stato da sempre il simbolo del non far niente, del non rischiare capitali su un edificio ormai storico che, se demolito, avrebbe reso – ricostruendolo con sembianze e volumi nuovi – molto di più di com’era accaduto in quella che era allora la verde periferia di Avellino dove le proprietà, puntualmente punteggiate da casali e ville di notevole pregio architettonico, si distinguevano dal nome dei proprietari che rendevano riconoscibili proprio quelle belle costruzioni.

Fu la coincidenza della scadenza della cosiddetta legge-ponte (un timido tentativo di fermare l’espansione edilizia a macchia d’olio con un alt temporaneo alle nuove costruzioni) con il preannunciato arrivo delle normative del Piano regolatore generale, targato Petrignani, Prg che Avellino per la prima volta stava per darsi, a rendere attivi proprietari di suoli e di immobili al tempo stesso presi da fretta e ingordigia. La legge-ponte aveva una scadenza che si accavallava con l’imminente dibattito in Consiglio comunale del Piano regolatore che sul Corso prevedeva la ricostruzione attraverso i “comparti edificatori”. In pratica, interi blocchi da rifare senza neppure sostanziosi aumenti di cubatura. In più tutto era frenato dall’eccessiva divisione delle proprietà.

Eppure proprio tra l’angolo di via Matteotti (Palazzo Brescia, oggi detto Palazzo Valentino), vico Giardinetto, corso Europa, un gruppo di proprietari trovò un’intesa e diede il via alla ricostruzione. Che si fermò, per un litigio, ad un solo edificio perché, mentre venivano alzati i pilastri del’abbattuto piccolo Palazzo Tecce (ne vediamo ancora la parte alta del tentativo di ricostruzione essendo stato il piano terra coperto da un muro, a sua volta coperto per qualche decennio dal tabellone pubblicitario di un cinematografo) l’accordo tra i proprietari venne meno con il conseguente duello giudiziario di cui adesso apprendiamo la fine. Duello che si fece più aspro e con più partecipanti con il sisma del 1980.

Il Piano regolatore aveva imposto il “vincolo di facciata” su molti palazzi del Corso, incluso Palazzo Trevisani, e quando i suoi proprietari ritennero di poter godere del doppio premio – incredibile regalo – che la circostanza attribuiva loro (aumento della cubatura e fondi per la ricostruzione) presentarono un progetto di demolizione e ricostruzione così com’era per quanto riguardava la facciata, progetto che Soprintendenza locale e direzione del ministero dei Beni culturali bocciarono: l’affacciata sul Corso doveva rimanere così com’era.

Che, poi, quella facciata fosse stata manomessa nel 1960 – un colore grigio-fumo che poco si conciliava con il fatto che il prospetto principale del palazzo non venisse baciato dal sole essendo rivolto a Nord – contava poco anche perché quasi tutti avevano dimenticato che quell’intervento fu eseguito dopo un’ordinanza (1959-1960) del sindaco Nicoletti che imponeva la pulizia di tutte le facciate del centro. Per la cronaca, un’altra aggressione allo stile ed alla eleganza dell’edificio fu compiuta negli anni Settanta quando androne, cortile e scaloni furono ripuliti con la martellina da ogni orpello – stucchi, cornici, ecc. – che potesse “giustificare” i vincoli sul palazzo. Fine non migliore toccò al retrostante giardino che il Piano regolatore di Petrignani destinò a supermercato (previsione cambiata con il Petrignani-bis). Forse in questa storia di Palazzo Trevisani c’è la storia – anche con i tentativi di accordo fatti dal Comune più di dieci anni fa – dell’urbanistica cittadina. Certamente della sua sbagliata espansione e trasformazione edilizia.

In ogni caso, ammesso che ve ne fosse bisogno, basta ricordare (o guardare, sì guardare, perché certe testimonianze sono ancora sotto i nostri occhi, e quelli di generazioni di una certa epoca, il dopoguerra, non possono sapere) quel che non è stato fatto in alcuni casi emblematici per rimettere in piedi quel che fu distrutto dal bombardamento del 1943. E già perché macerie o vuoti come quelli che fanno mostra di sé di fronte alla Banca d’Italia o all’angolo di via Casale (lato Corso Garibaldi) non sono “resti” del terremoto del 1980, ma resti della guerra. Per la cronaca un terzo “buco” posto all’imbocco di via Nappi – angolo via Trinità – è stato chiuso e risolto soltanto grazie ai finanziamenti della ricostruzione post-sisma. Mentre i resti di uno “sgarrupo”  bellico di fronte al convento Suore delle Oblate fu risolto con una demolizione e basta (oggi è u n parcheggio). Parlare di queste cose a settant’anni dai bombardamenti è a dir poco penoso.

 

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