AVELLINO – Cinque mesi dopo l’inizio dell’emergenza pandemia è possibile fare un bilancio dei suoi effetti in Irpinia. Al di là delle cifre e delle statistiche quotidiane e al netto delle dissertazioni scientifiche (o, in molti casi, pseudo tali), la stagione del Covid 19 è costellata da una serie di immagini che nel giro di poche settimane sono già diventate iconiche.
La prima, che nessuna telecamera o fotocamera ha mai ripreso, è quella di due persone che percorrono i corridoi dell’ospedale di Ariano Irpino, passando da un reparto all’altro. Una è il marito, che accompagna l’altra, la moglie, che già accusa i sintomi del virus. Lui, medico, guida lei nei corridoi del plesso, dopo aver bellamente aggirato il percorso “sporco” dedicato ai pazienti affetti da Covid 19. Non sappiamo (e forse mai sapremo) cosa realmente sia successo e – soprattutto – quale sia stata la causa di un comportamento così imprudente. Semplice panico (anche un medico può lasciarsene travolgere)? Un odioso mix di sottovalutazione del rischio e di sindrome dell’ “io salto la fila perché lo posso fare”?
Sta di fatto che tutti i mass media, locali e nazionali, per alcuni giorni, quando la pandemia era ancora una semplice epidemia, hanno dato risalto alla notizia, dando la stura a tutto il repertorio di frasi fatte sulla nota inaffidabilità della sanità pubblica in Italia meridionale.
La seconda immagine è quella di una festa, ancora una volta ad Ariano Irpino. In realtà, per molte settimane sembrava solo un nuovo capitolo di un gossip di provincia, che ha trovato modo di alimentarsi anche in una situazione così drammatica. Solo tempo dopo si è scoperto che effettivamente il focolaio arianese potrebbe essersi sviluppato anche grazie ad una manifestazione conviviale i cui contorni restano comunque nell’ombra. E resteranno nell’ombra anche gli organizzatori ed i protagonisti, che – una volta tanto – si affanneranno in futuro a dire “io non c’ero”.
Anche la terza immagine appartiene ad Ariano. È quella dei militari che presiedono l’accesso a Cardito per blindare la prima “zona rossa” della Campania. Erano i giorni in cui il Tricolle era la Codogno del Sud. Erano i giorni in cui si decideva di non decidere se chiudere o meno la Val Seriana, in un patetico balletto di conflitti di competenza e di “scaricabarile”. Erano i giorni dell’orgoglio campano, della restaurazione del Regno di Napoli, dei bauscia che avrebbero volentieri eletto De Luca a governatore dell’intera Padania. Erano i giorni dei filmati di migliaia di arianesi in fila, che attendevano di sottoporsi ad uno dei più grandi screening della storia della sanità pubblica italiana.
La quarta immagine è un filmato, quello di una delle prime interviste rilasciate da una contagiata scampata miracolosamente al Covid 19. Era la donna di Savignano Irpino che in un miscuglio di paura e rabbia raccontava della lotta ingaggiata con il virus e del comportamento sconsiderato di chi l’aveva esposta al contagio. Forse il suo è stato il primo appello alla responsabilità lanciato da chi ha visto in faccia il mostro e l’ha sconfitto.
La quinta immagine è quella di un altro calvario individuale, ma condiviso in diretta dalla collettività. Era il calvario di Carmine Sanseverino, medico del “Moscati”, che ha contratto il contagio mentre era ancora in trincea. Era iniziato con un diario quotidiano su Facebook, interrotto pochi giorni dopo dalla notizia del suo ricovero nel reparto di terapia intensiva. Il pathos dei tanti amici, pazienti e conoscenti riversato sui social nell’attesa di una buona notizia che tardava a venire. E, infine, la guarigione, i lineamenti molto diversi da quelli della sua foto-profilo, il suo appello a non sottovalutare il nemico. E, infine, l’intervista rilasciata ad Angelo Picariello su “Avvenire”, per testimoniare un’esperienza unica e (fortunatamente) irripetibile.
E, infine, l’ultima immagine, quella – purtroppo – più iconica di tutte: il salotto televisivo di Barbara D’Urso ed il sindaco di Avellino che tenta di difendere l’indifendibile. La testimonianza tragicomica di un amministratore, il “responsabile” delle sorti di una comunità, che tenta di spiegare che per evitare gli assembramenti ha deciso di prendervi parte. Le sue parole sembravano riecheggiare quelle dell’ufficiale dell’esercito americano in Vietnam che spiegava che solo distruggendo un villaggio avrebbe potuto salvare i suoi abitanti dai vietcong.