AVELLINO – Per tutti gli irpini quei novanta secondi del 23 novembre 1980 furono solo l’inizio di un sisma che inevitabilmente avrebbe cambiato il decorso della loro vita, anche di coloro che, fortunatamente, non ebbero in quella circostanza vittime dirette.
Il mio terremoto iniziò al “Corso”, dove passeggiavo con mia moglie (ero al quarto anno di un fidanzamento lunghissimo): la porta a vetri di una pizzeria che esplode, la fuga dei ragazzi, l’urlo alle mie spalle (“o terramoto" ), la nube di polvere che riuscii a vedere per un attimo, in lontananza, da Piazza Libertà, prima che le luci si spegnessero. E poi la corsa verso casa, i cornicioni crollati, un’auto semisepolta dai calcinacci, con le luci accese e i soccorsi dei familiari del conducente per tirarlo fuori e infine mia madre e mio padre, giù, per strada, urlanti, in vestaglia, con Laika, la nostra cagnetta, al guinzaglio.
Le ore successive mi fecero scoprire la completa dissincronia fra realtà e informazione ufficiale, frutto di una comunicazione carente e, soprattutto di un sistema di soccorsi raffazzonato e totalmente improvvisato. Dalla spazio esterno della palestra della scuola industriale, in cui ci rifugiammo insieme con tutti i vicini del quartiere, intravedevo, in quella notte gelida, tutti i tetti delle palazzine crollati o fortemente danneggiati; un vigile del fuoco, che si accingeva a recarsi nella propria caserma, ci riferiva le notizie di morti dell’Alta Irpinia, di cui era stato informato. Invece mamma Rai, attraverso i suoi giornali radio, per ore si sarebbe concentrata sul palazzo di via Stadera a Napoli e successivamente su Balvano e la chiesa crollata. Di Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, e della stessa Avellino, avremmo cominciato ad avere notizie soltanto verso le prime ore del pomeriggio di lunedì. Casa mia era ancora in piedi, ma mi bastò salirvi per pochi secondi quella notte insieme con mio fratello Mimmo per raccattare qualche coperta, per capire che non vi avrei abitato in futuro: crepe enormi nei muri, il soffitto crollato in più punti e, soprattutto uno spacco trasversale nel corridoio, con il pavimento suddiviso in due livelli differenti, in una forma di gradino.
I tre giorni successivi, vissuti nell’automobile, trascorsi anche a soccorrere i tanti anziani che radunammo in una tenda nella palestra (tre o quattro di loro sarebbero morti nelle settimane successive contribuendo ad un bilancio di vittime non incluso in quello ufficiale) furono i giorni della presa di coscienza piena della vera entità di quanto accaduto e soprattutto delle domande sul futuro; appresi della morte di Costantino e di sua moglie (nel centro storico di Avellino), di Franco e dei suoi tre figli a Lioni, dove erano appena rientrati dopo aver visto al “Partenio” l’Avellino strapazzare l’ Ascoli, di “Tonino” Pecora, l’eroico capitano dei CC di Sant’Angelo dei Lombardi: erano rispettivamente un cugino, un nipote e un vecchio amico di mio padre.
Martedì, allontanatomi dalla palestra per cercare un po’ di viveri (per quasi quarantotto ore papà, ancora atterrito, mi impedì di muovermi), vidi per la prima volta, da lontano, la Torre dell’Orologio “decapitata” e poi, inoltrandomi nell’epicentro del disastro, in sequenza le rovine di via Cascino, le pietre del Carmine, il vecchio basso in cui era nato mio padre ridotto in polvere, la casa in cui ero venuto al mondo io letteralmente sventrata. Che futuro ci sarebbe stato per noi tutti? Dove saremmo finiti a vivere io e i miei cari? Quali progetti avrei potuto ancora fare sulla mia vita, sul mio cammino universitario in un momento in cui, mi rendevo conto, alla mia famiglia era rimasto davvero poco?
Di lì in avanti, in quell’inverno gelido (poche volte abbiamo avuto tanta neve come in quell’anno), la mia vita si sarebbe suddivisa fra la nuova riorganizzazione abitativa (trovammo in affitto una casa, in una palazzina non ancora completata ai Cappuccini, nella quale per quasi sei mesi l’elettricità è stata precaria e occasionale, prelevavamo l’acqua dalla fontana del cantiere, per riscaldarci facemmo conto su tre stufette a cherosene che trasferivamo di stanza in stanza e, mi scuso per la crudezza, i servizi igienici furono inutilizzabili tanto da doverci rivolgere al Convento di Santa Maria delle Grazie) e la ricostruzione di un futuro, in cui grazie al mio amico Alfredo, potei riprendere la mia strada verso la laurea in Medicina che, me ne resi conto pienamente dopo, poteva interrompersi irreparabilmente.
A fronte, però, dell’evolversi della mia vita e di quella della mia famiglia, che pur tra tante difficoltà (le malattie serie in cui incorsero i miei genitori quale esito dei disagi di quei giorni, le pesanti ricadute economiche legate al desiderio di ritrovare la propria abitazione rese ancora più evidenti dal numero elevato di componenti della famiglia, i tempi lunghi della ricostruzione della casa) è progredita verso una situazione di “normalità”, non è andata così per Avellino e per l’Irpinia.
C’è ancora da scriverla interamente la storia di questi anni, una storia in cui le vittime forse sono ben oltre le tremila che il bilancio ufficiale le attribuisce. Una storia in cui il destino di questa terra di Irpinia non è stato certamente benevolo: l’arrivo massiccio di denaro non è stato sufficiente a costruire quel substrato occupazionale che avrebbe dovuto richiamare i tanti emigrati verso la propria terra d’origine e questo appare inesorabilmente dai dati che mostrano, viceversa, un ulteriore spopolamento che ha portato la cifra dei residenti sotto quella soglia psicologica dei 420.000.
A testimoniare ulteriormente questo obiettivo fallito le centinaia di case, di villette, finanziate anch’esse con denaro pubblico, spesso “sostitute” di abitazioni fatiscenti, che giacciono, a loro volta, dolorosamente inabitate e che, forse, tali resteranno per sempre. Per non parlare poi delle tante opere “decontestualizzate” rispetto alle aree in cui sono sorte : pensare al Mercatone come al rimpiazzo dell’antico “Mercato” di Piazza del Popolo lascia, tanti anni dopo, sgomenti!
Fa testo, dolorosamente, la cifra dei giovani che sono andati via e che ben difficilmente torneranno: non si è stati capaci di offrire loro luoghi di formazione all’altezza, non si sono costruite per loro occasioni di lavoro stabile e dignitoso, che andassero al di là di offerte da capolarato, precario e malpagato.
In più, la perdita di quella sorta di status di “free zone”, di area sostanzialmente povera, ma in cui vivere serenamente, senza il cappio della criminalità organizzata. Le recenti vicende giudiziarie sono solo l’ultimo capito di un’infiltrazione malavitosa caratterizzata, fra l’altro, dalla crescita straordinaria di giovani vittime del flagello della droga.
Due cose mi hanno colpito, in questa miriade di articoli e riflessioni che ho ascoltato: quella di Giorgio Fontana sul “Mattino” che ha definito sostanzialmente il terremoto come l’acceleratore, nella nostra terra, di un progetto di restaurazione attraverso il quale lentamente sono state sottratte alcune conquiste, la democrazia, la giustizia e la laicità ottenute con grande fatica fra la fine degli anni “60 e 70, un processo peraltro andato avanti, con tempi diversi, in tutto il Paese; il tutto a vantaggio di un “patto fra politica ed affari, ingiustizia e corruzione - dice Fontana - che vanno sempre a braccetto ” .
L’altra riflessione è stata quella di Franco Arminio, il ”paesologo”, che parlando delle varie manifestazioni in ricordo di quella data tragica, ha segnalato come esse possano aver valore soltanto se saranno capaci di costruire, partendo dalla “memoria”, delle scelte concrete su cui basare il futuro di Sant’Angelo dei Lombardi e di Lioni, di Calitri o di Conza, delle scelte che indichino come arrestare e invertire la deriva verso lo spopolamento che, al momento, appare inarrestabile: guardare semplicemente al passato vuol dire, in un certo senso, offendere la stessa memoria!
Mentre sono in Piazza del Popolo, e assisto alla processione verso il monumento in ricordo di quella tragica serata, mentre ascolto a capo chino e con gli occhi che si annebbiano, la sinfonia delle sirene delle ambulanze e delle campane di Sant’Anna, rivedo i volti di Sandro Pertini e papa Wojtyla, avanzare fra le macerie e dare coraggio a chi aveva perduto tutto: lo Stato e l’autorità religiosa che amo, quelle che si piegano senza timore verso chi ha bisogno e chiede giustizia e amore.