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    03/07/2024

L'Irpinia e il futuro della politica

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b_300_220_15593462_0___images_stories_Politica-Editoriale_la_statua_di_carlo_ii_dasburgo_e_la_torre_dellorologio.jpgAVELLINO – La provincia di Avellino è attesa da un cambio di passo culturale ormai non più differibile. È necessario il definitivo superamento e abbandono della mentalità che ha sempre visto nel prossimo un pollo da spennare o un non disinteressato benefattore da cui farsi fornire i mezzi di sussistenza. Purtroppo, non si può pretendere né sperare tale cambiamento dalle generazioni di cinquanta-sessantenni cresciuti con negli occhi lo strapotere politico del partito che nel giro di una notte “inventava” industriali, professionisti, imprenditori, costituendo una classe dirigente, dorsianamente intesa, funzionale ai propri schemi di potere.

In ciò è consistita la grande anomalia della provincia di Avellino, nella quale la relazione tra società cosiddetta civile e classe politica è stata completamente ribaltata e riconfigurata a esclusivo vantaggio di un ceto di podestà e cacicchi locali. Invece di essere espressione della società civile, sono stati i gruppi di potere politico a essersi fatti arbitri quasi assoluti dei processi di mobilità sociale, pretendendo di controllare ogni dinamica di promozione individuale, dalle assunzioni dei bidelli nelle scuole pubbliche alle nomine dei manager delle aziende partecipate dagli enti locali.

Per tacere delle imprese private paracadutate sul territorio da altri contesti geografici a suon di incentivi a carico delle casse statali. Questa stagione politica, purtroppo non breve, si è alimentata della capacità di intercettare e dirottare sul territorio risorse pubbliche, senza sostanziali obblighi di rendicontazione, per distribuirle in modo da massimizzare il proprio tornaconto elettorale e il guadagno personale di pochi. Naturalmente, il problema della provenienza di tali risorse, datane l’ingente entità, non poteva essere risolto soltanto con la timida capacità fiscale dello Stato italiano, quanto piuttosto mediante il ricorso al più che generoso finanziamento del debito pubblico da parte dei mercati.

Si creava così un inedito meccanismo di bengodi socio-finanziario, nel quale la classe politica si poneva e proponeva come promotrice dello sviluppo socio-economico della provincia grazie alla intermediazione, attuata con criteri tutt’altro che meritocratici, tra le ricchezze gentilmente concesse dai mercati e i loro percettori finali. In tal modo, si produceva il duplice effetto di innalzare gli stili di consumo anche dei ceti sociali popolari e, al contempo, di migliorarne il tenore di vita. Con un unico, fatale, limite: quello di aver dato vita a uno sviluppo parassitario e sussidiato dall’esterno. In definitiva etero-diretto e servile.

Quando, con la dissoluzione dell’impero del socialismo reale nel 1991, le ombre rosse si sono diradate e l’unico fantasma aggirantesi per l’Europa era quello dell’inflazione, banche internazionali e società finanziarie hanno perso ogni interesse a conservare e protrarre nel tempo la propria compiacenza nei confronti del sovra-indebitamento italiano e hanno conseguentemente cessato di sussidiare una crescita non autonoma. Primo, inevitabile effetto è stata la fine di una fase storica in cui la classe politica era l’unica gestrice delle risorse date a credito dai mercati finanziari. Seconda, altrettanto inevitabile conseguenza è stata la lenta, inesorabile, erosione del consenso elettorale a danno degli esponenti di quella stessa classe politica, i quali non erano stati capaci di basarlo su altro che non fosse un coacervo di cointeressenze economiche totalmente prive di qualunque base ideale.

E siamo così giunti al permanente anno zero non solo della politica, ma anche della storia, della provincia di Avellino, del Mezzogiorno e, probabilmente, dell’Italia intera. Questo necessariamente breve excursus storico, del tutto privo dell’ambizione di essere un saggio accademico, ma con la pretesa di farsi nutrire da un minimo di onestà intellettuale, evidenzia, quindi, il bivio di fronte al quale si viene ormai a trovare la società della provincia: o tornare a livelli di sviluppo e di consistenza reddituale da secondo dopoguerra o entrare nella turbolenta e irrisolta post-modernità del ventunesimo secolo.

E tuttavia la scelta sul sentiero da imboccare non può essere calata dall’alto da qualche avventuriero politico dell’ultima ora o da qualche vecchio trombone sfiatato, ma è rimessa, ormai per necessità storica, a quanti, originari della provincia, sono dovuti emigrare e hanno conseguito successo e fortuna professionale in altri contesti socio-antropologici.

A costoro il compito e anche l’invito a riunirsi, a “fare rete”, a non lasciarsi atomizzare dall’individualismo imposto dall’attuale ordine sociale, per sedersi idealmente intorno a un tavolo ed elaborare, grazie alle proprie arricchenti esperienze, un programma di riforma della società e dell’economia provinciale, da sottoporre successivamente, nelle forme istituzionali che risulteranno più adeguate, al giudizio dei cittadini dell’Irpinia. Da un lato, è un atto dovuto alla terra che ci ha generato, dall’altro è un ufficio a cui siamo tutti chiamati, dato l’incombere di nuovi, rivoluzionari, processi storici.

 

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