La crisi economica e la confusione in cui versa il Paese sta inducendo il governo a scelte impopolari, a volte contraddittorie ma spesso anche affrettate. È sicuramente difficilissimo risalire la china quando è tutta la montagna che ti viene addosso. Ma è altrettanto vero che occorre procedere con molta oculatezza.
Un esempio di questo contraddittorio procedere viene da uno dei primi provvedimenti del governo Monti, quello relativo all’iter di soppressione delle Province. Sia per esigenze finanziarie (l’apparato pubblico costa troppo) sia per asciugare la palude dove ristagnano interessi e veti burocratici (la già pesante struttura statale poggia su malferme piattaforme locali) si è pensato di tagliare con un colpo di forbici le Province. Dapprima ridimensionandone il livello istituzionale facendo diventare i sindaci gli elettori del presidente in modo da risparmiare il costo delle elezioni, poi portandole gradualmente alla morte senza rinnovare i Consigli provinciali e distribuendo diversamente le loro competenze. Competenze che passerebbero alle Regioni che raramente, per parte loro, sono state prodighe di aperture e deleghe proprio verso le Province.
Era, questa della soppressione delle Province, la riforma più a portata di mano della vera grande riforma della pubblica amministrazione. Il risparmio del costo delle elezioni provinciali, per quanto poca cosa, è comunque un risparmio come quello relativo al pagamento di consiglieri e giunta.
Rimane però il forte dubbio sulla effettiva utilità di questa miniriforma che, secondo alcuni, dovrebbe camminare di pari passo con la soppressione o l’accorpamento dei piccoli Comuni. In verità le Province, come i piccoli Comuni, non godono di buona reputazione e soffrono di vecchie campagne abolizioniste, sostenute soprattutto dal leader repubblicano Ugo La Malfa che le riteneva un doppione delle Regioni la cui nascita (1970) sembrò annunciare una rivoluzione politico-amministrativa quando non proprio evidente era l’esigenza di salvaguardare, come oggi si dice, il «territorio».
Per la verità, in quei tempi, c’era un altro tema molto dibattuto: l’abolizione delle prefetture. Quarant’anni dopo, con l’aiuto di organi d’informazione abilmente dirottati sul tema Provincia, tutto è cambiato. Tutti (o quasi) chiedono l’abolizione delle Province. Si è persino perduta ogni traccia della cosiddetta città metropolitana, super ente locale che avrebbe dovuto gestire (divorare) il territorio circostante le grandi conurbazioni.
Nessuno, ma proprio nessuno, pone il problema della necessità e del ruolo dei napoleonici uffici prefettizi in un contesto (locale) che pretende autonomia e pochi, essenziali vincoli.
È incredibile anche che mentre la spinta dal basso porta Comuni e realtà locali a rapportarsi con livelli operativi di media dimensione (visto, peraltro, il fallimento delle Regioni), si abolisca l’unico vero ente intermedio elettivo che risponde alle richieste che oggi dai “territori” provengono in tema di ambiente, Protezione civile, trasporti, turismo, sviluppo locale ed altro. Su tutti questi temi la quasi totalità delle Regioni ha fallito. In ogni caso non sono le prefetture, con il loro unico potere di coordinamento, a potersi impegnare direttamente su questi fronti.
Prendiamo il caso dei rifiuti. Chi, se non un livello elettivo rappresentativo di un’ampia comunità locale, può davvero mettersi alla testa di un processo che prevede una mobilitazione casa per casa, passaggi successivi delicati come lo smaltimento? E nei trasporti, con i governi nazionali lontani e posizionati su alture irraggiungibili, e le Regioni incapaci di capire le esigenze di valli, cittadine, contesti particolari, chi può meglio programmare – e magari gestire – servizi strettamente connessi con tante piccole comunità locali?
Persino nelle zone terremotate dell’Emilia avvertiamo oggi l’esigenza di vedere all’opera enti intermedi che rispondano alle richieste dei cittadini magari formulate attraverso i sempre più isolati sindaci ma cittadini che avvertono la Regione troppo lontana e le prefetture lontanissime e comunque poco concludenti essendo sempre in attesa di istruzioni da Roma.
Su questo terreno – Province sì, Province no – è difficile persino trovare differenze nelle attese di settentrionali e meridionali. E questo perché un istituto democratico rappresentativo della variegata realtà della penisola è avvertito ovunque come un’esigenza. Le Province all’improvviso fatte nascere in Lombardia, in Calabria o in Sardegna possono essere state una forzatura, ma è incontestabile che un ambito oppresso da una vicina metropoli, o un piccolo territorio (con pochi abitanti) isolato rispetto ai circuiti che contano, hanno avvertito il bisogno di articolarsi con un livello istituzionale altamente democratico. Livello che forse ha un limite soltanto nel sistema elettorale basato su collegi troppo piccoli.
E la soppressione di un livello democratico non è mai una cosa buona. Quanto ai risparmi, poi, c’è francamente da rimanere interdetti rispetto ad una iniziativa che procurerà un vulnus sicuro alla democrazia sul territorio ed un’economia irrisoria rispetto a quella della quale si ha bisogno. Risparmiare le indennità degli amministratori delle Province è ben poca cosa rispetto alla forte riduzione di spesa che si avrebbe se tante funzioni, tanti organismi locali venissero messi sotto il controllo delle Province. Funzioni ed organismi che nel trasferimento dallo Stato alle Regioni hanno anche perduto in “produttività”.
Altro che enti inutili sarebbero queste ultime se potessero assorbire le funzioni delle prefetture, in qualche misura della stessa gestione delle forze dell’ordine, e poi degli enti del turismo, degli uffici case popolari, delle Comunità montane, dei consorzi per la gestione dei rifiuti e dei tanti, tantissimi consorzi di bonifica, per la distribuzione dell’acqua, per la gestione delle aree industriali, dei tanto Ato, delle Autorità di bacino e così via. Tante realtà senza controllo dove, secondo studi approfonditi, più si fa diffuso e rarefatto il decentramento più aumenta la corruzione.
L’indicazione di questi sottoenti non è altro, infatti, che la geografia della mappa del sottopotere o del potere incontrollato (nessuno di questi organismi nasce su scelta degli elettori o è da questi giudicato).
Questo è il mondo sul quale mettere le mani, il mondo ricco di incarichi, interessi e poltrone che alla comunità costano tanto. Certo, riordinare questa galassia improduttiva è impresa ardua. Ma qui i risparmi ci sono. Tutto sta a cominciare ed a programmare la lenta riutilizzazione del personale che, giunto alla pensione, non va naturalmente sostituito. Fatte salve le esigenze minime di operatività.
Un lavoro del genere porterebbe anche ad una moralizzazione dei bassifondi della burocrazia e della politica. Burocrazia e politica che vanno messi al servizio dei cittadini. Soprattutto nel Sud del Paese dove un esercizio democratico in ambito provinciale non farebbe certo male. E dove c’è oggi da temere che politici di quart’ordine assurti al rango di parlamentari, una svolta sloggiati da Roma tornino nei collegi a caccia di quelle poltrone prima assegnate ai fedelissimi.
Sotto il livello regionale, in sintesi, c’è bisogno di semplificazione e di democrazia. Con l’abolizione delle Province non ci saranno né l’una né l’altra.