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    22/07/2024

La fine di un’«anomalia politica»

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Antonio Di NunnoAVELLINO – “In questo contesto Di Nunno non poteva che essere un’ano­ma­lia, da espellere quanto prima dal sistema. Né poteva esserci posto per un Amato Barile, la cui indipendenza, professionalità e rigore morale cozzavano frontalmente con la cinica arro­ganza dei signori delle clientele. Oggi la città è stata “demo­cra­ticamente” loro riconsegnata (significativo il peso elettorale esercitato nell’operazione dai quartieri peri­fe­rici). Che coloro i quali cinici e inerti l’hanno consentito o ad­dirittura favorito e propiziato abbiano almeno il buon gusto di tacere, e tantomeno di fare la morale a quei pochi che, espo­nendosi e pagando di persona, come Di Nunno, han­no cercato di dar vita ad un con­fronto politico autentico”.

Si chiudeva così, il 19 giugno del 2004, l’editoriale del nostro giornale, L’Irpinia, oggi quotidiano online, allora periodico in edizione cartacea, a commento del risultato elettorale delle amministrative del 12 e 13 giugno 2004 svoltesi, dopo la parentesi del commissario straordinario, in seguito alle dimissioni di Antonio Di Nunno - presentate il pomeriggio del 10 ottobre 2003 - vittima della cosiddetta “operazione canaglia”. In quella occasione fu eletto sindaco Giuseppe Galasso che ebbe la meglio su Amato Barile candidato del Patto civico ispirato da Libera Città.

Rileggendo una sera, a casa, quell’editoriale, prima di assistere ad una partita del Napoli, di cui, dopo il suo Avellino, era tifosissimo, Tonino proruppe in un “questa è la verità”. Per una ricostruzione degli eventi – su cui pure si dovrà continuare in seguito a fare analisi storica senza scomodare né l’eternità né l’aldilà – riproponiamo la lettura di quell’editoriale su cui invitiamo a riflettere, per lo meno a riflettere, quelli che Franco Festa, sul Mattino di oggi, 5 gennaio 2015, ha definito i pugnalatori di ieri.

*  *  *

La netta sconfitta del “Patto Civico” alle elezioni comunali di Avel­lino conferma una tendenza politica da tempo in atto nella nostra provincia, segnando in sostanza la fine di una “ano­ma­lia” del sistema politico cittadino e provinciale costi­tui­ta ap­pun­to dagli 8 anni e mezzo della sindacatura di Antonio Di Nun­no.

Va infatti innanzitutto ricordato che la candidatura di Di Nun­no, nel­la primavera del ’95, non costituì il logico sbocco di un discorso politico e il na­tu­rale rinnovamento di una classe diri­gente. Es­sa fu infatti esclusivamente frutto della bruciante sconfitta subìta a livello nazionale dalla Dc-Ppi alle elezioni po­litiche del 27 marzo '94, sconfitta che determinò anche in Ir­pi­nia un grave indebolimento del regime partitocratico impe­rso­nato dal sistema di potere demitiano, umiliato nella persona stessa del leader, costretto a non riproporre la sua candida­tu­ra.

A dispetto delle inconfessabili intenzioni e delle oscure ma­no­­vre del gruppo dirigente demitiano, le elezioni ammini­stra­tive, ma a fortissima valenza politica, della primavera '95, af­fer­­marono comunque una decisa volontà di rinnovamento dei metodi di fare politica; l'elettorato dette fiducia ad un accordo credibile tra la sinistra e il cen­tro, premian­do gli uomini che lo impersonavano ed eleggendo Di Nunno a sindaco di Avel­li­no e Anzalone a presidente della Provincia.

Estraneo agli apparati di partito e alle vecchie clientele poli­ti­che, Di Nunno, era stato lanciato all'ultimo momento e in una situazione di marasma comatoso del Ppi. La situa­zio­ne appariva disperata anche ai più ot­timisti degli osservatori, e tutte le pre­visioni davano per scontato il trionfo schiacciante della de­stra. Solo perché consideravano il Comune irrimediabilmente per­­duto i vecchi “padroni del vapore” si rassegnarono a subire la candidatura di Di Nunno, che ritenevano votato al massacro, preferendo invece puntare tutto sulla candidatura di Pennetta a presidente della provincia. Di Nunno riuscì invece a riequi­li­bra­re e alla fine a ribaltare la situazione, mentre invece il de­mitiano Pennetta non entrava nemmeno in ballottaggio alla Pro­vincia.

Fu in sostanza esclusivamente il voto d'opinione (e non certo quello d'apparato, convogliato verso liste di comodo, inizial­men­te accreditate da pilotati e compiacenti mass media di mi­ra­bolanti successi, poi non realizzatisi), a decidere della con­te­sa.

Paradossalmente, tuttavia, nello stesso successo di Di Nunno stavano “in nuce” tutti gli elementi che ne avrebbero reso ar­dua e problematica l’esperienza sindacale. Subìto e non accet­ta­to dall’establishement demitiano, né tantomeno amato, Di Nun­­­no aveva in effetti la sorte segnata: sopravvivere adot­tando un ruolo di basso profilo, politico e personale, rasse­gnandosi ad amministrare per conto terzi, oppure cedere e andarsene, ri­­nunciando al suo programma di rinnovamento. La contraddizione, delineatasi sin dall’inizio (anzi, se si può dire, pri­ma ancora di cominciare), era poi destinata a sempre più aggravarsi nei mesi e negli anni per effetto della caduta delle illusioni del rinnovamento e per il ricompattamento del regime.

Il fallimento delle vec­chie for­ma­zioni politiche e delle loro cla­ssi di­rigenti, che aveva sembrato apri­re per un momento sce­nari inediti e pro­spettive inattese, non aveva infatti aperto in Irpinia alcuno spazio politico nuovo. Anzi, a partire soprat­tut­to dal­le elezioni politiche del ’97, si è avviata una formidabile ope­­ra­zione consociativistica e trasfor­mistica, che oggi signi­fi­ca­tivamente culmina, fi­naliz­zata alla perpetuazione di vecchi e consolidati equilibri di pote­re e che passa attraverso il sa­crificio della linea politica del rin­nova­mento.

Protagonisti indiscussi di tale operazione sono stati il Ppi (poi ri­ciclatosi nella Margherita, in realtà null’altro che le vecchie clien­tele demitiane con qualche marginale recluta di comple­mento) e il Ds. Quest’ultimo – a causa della sua concezione e prassi stalinista, che finalizza la politica al potere – è stato affascinato dalla perdurante e vischiosa forza del sistema di controllo demitia­no, per cui ha indirizzato tutta la propria azione politica ad associarvisi, mirando alla lun­ga, machiavel­lica­men­te, a fagocitarlo e a sostituirsi ad esso. Tutt’a­l­tro che ras­se­gnato al ruolo di padre nobile e a gestire garbatamen­te il pro­prio tramonto politico, De Mita si è da parte sua mosso con de­cisione e spregiudicatezza per inserirsi nelle contraddizioni e nelle crepe dell’U­livo. E avendo sostanzialmen­te accettato i Ds di ridurre il processo di transizione politica ad un'ope­razio­ne ver­ti­cistica, gestita tra sin­goli lea­der, è evidente che a preva­le­re non poteva essere che la logica ferrea della conservazione del potere, destinata oggettivamente a pre­miare la linea de­mi­tiana.

Ma proprio il “ritorno” di De Mita ad un ruolo egemonico era inevitabilmente destinato a far esplodere, alla lunga, le con­tra­d­­­dizioni del precario equilibrio politico-amministrativo usci­to dalle elezioni del ’95. E’ più che noto come il controllo del Co­mune di Avellino abbia sin dal 1970 ricoperto un ruolo centrale nella strategia demitiana di occupazione del potere provinciale, e come quindi più che a malincuore esso fosse stato almeno par­­zialmente abbandonato nel ’95. Era quindi inevitabile che la ripresa e il rilancio del potere demitiano passassero attraverso il tentativo di ripristinare tale controllo. Un ostacolo grave a tale operazione era però costituito da Di Nunno, rivelatosi in­trattabile e indisponibile ad ogni logica di condizionamento o di recu­pero. Di qui il progressivo “vuoto” politico creato intorno alla giunta da parte del Ppi, di qui l’escalation delle polemiche, delle punzecchiature e delle provocazioni, sino all’esplodere ir­re­vo­ca­bile della crisi.

Il dissidio stava sostanzialmente nella realtà stessa delle cose, oltre che delle persone, e il “divorzio” era non quindi solo inevitabile, ma anzi c’è da stu­pirsi che sia sopraggiunto così tar­di.

Si giunge così, dopo la convergente manovra Margherita-Ds che ha portato allo strangolamento della giunta Di Nunno, alle dimissioni di questi (estremo, disperato gesto che cercava di far appello all’opinione pubblica cittadina) e allo scioglimento del Consiglio comunale, al risultato elettorale del 12-13 giugno. Che dire? I soliti Soloni hanno pontificato e sentenziato che il “Patto Civico” era politicamente sbagliato, che la rinuncia ai simboli di partito è stato un errore, che la collocazione in esso di “Libera Città” era incongrua ed ha disorientato l’elettorato, eccetera. Considerazioni tutte labili ed opinabili, che non spie­gano in realtà nulla. Come quella, ancora più incredibile, che il program­ma del “Patto Civico” fosse solo in funzione di sterile con­trap­­­po­si­zio­ne a De Mita, che sarebbe anzi stato vio­len­te­mente at­tac­cato e ad­dirittura polemicamente aggredito. Cosa che non può che indur­re al riso e all’evocazione del “su­perior stabat lu­pus” di esopiana memoria chi anche solo som­maria­mente ri­cordi il linguaggio – per non dire il turpiloquio – al quale con im­­pegno degno di miglior causa si è abbandonato lo sta­tista di Nu­sco contro gli avversari, da Di Nunno a Zec­chi­no.

Si è tra­scurato in realtà l’essenziale e lo strut­tu­ra­le, e cioè il profondo falsamento del libero gioco democratico. Per decenni, sino al 1994, in Irpinia non vi era stata vera politica, e quindi vera demo­cr­a­zia. Quella che veniva spacciata per tale era in realtà una de­mocrazia manipolata, cioè un gioco per pochi ini­ziati, re­le­gati in un limbo asettico e astratto, dove non giun­gevano né ave­vano udienza i problemi concreti della gen­te e del paese reale (lavoro, sanità, scuola, servizi, ambien­te, cul­tu­ra ecc.). Tutto si svolgeva grazie a complesse alchimie par­titiche e cor­rentizie, basate essenzialmente sull'occupa­zio­ne della società civile e sulla lottizzazione di ogni realtà esi­stente, allo scopo di per­petuare e riprodurre i vecchi equilibri del potere. Gli effetti di tale degenerazione della po­litica ri­sul­tarono alla fine evidenti. Le manifestazioni più macro­scopiche erano co­sti­tuite dal “boss sy­stem” e dalla “sovranità limitata” degli am­mini­stratori, che non risponde­va­no agli elet­tori e all’opi­nio­ne pub­blica, ma solo ai “pa­drini” po­litici che li avevano desi­gnati.

In tale ambiente e sistema – antropologico prima ancora che politico – la formazione e il rinnovo delle classi dirigenti sono sempre risultati assai ardui e difficili. La “genialità” del “boss system” imperante non è consistita soltanto, come super­fi­cialmente si ritiene, nell’occupazione “scientifica” del potere e nella sua cinica quanto spietata gestione. Più sottile e de­vastante sono stati infatti il blocco, lo snaturamento e la se­le­zione alla rovescia che per decenni si sono imposti a danno del delicatissimo processo di formazione e di circolazione delle éli­te. Queste, da classe dirigente sono state progressivamente ridotte ad un ruolo puramente esecutivo, subalterno e di ser­vi­zio, abituate dall’obbedienza più servile, piatta e conformistica ad essere nient’altro che una docile casta privilegiata di “yes man”, diligenti esecutori di una politica meramente clientelare, con i risultati catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti.

Ancor peggio, si è tagliato ogni legame tra la società civile e la classe politica, distorcendone profondamente i rapporti, di talché la prima, lungi dall’esprimere la seconda, è stata da essa dominata, occupata e colonizzata. Si è realizzata così una pe­culiare via irpina allo Stato assistenziale “dalla culla alla tomba”, passando attraverso il posto di lavoro, il successo im­pren­di­to­riale, l’affermazione professionale, la cooptazione nel perso­na­le politico-amministrativo e quant’altro.

In questo contesto Di Nunno non poteva che essere un’ano­ma­lia, da espellere quanto prima dal sistema. Né poteva esserci posto per un Amato Barile, la cui indipendenza, professionalità e rigore morale cozzavano frontalmente con la cinica arro­ganza dei signori delle clientele. Oggi la città è stata “demo­cra­ticamente” loro riconsegnata (significativo il peso elettorale esercitato nell’operazione dai quartieri peri­fe­rici). Che coloro i quali cinici e inerti l’hanno consentito o ad­dirittura favorito e propiziato abbiano almeno il buon gusto di tacere, e tantomeno di fare la morale a quei pochi che, espo­nendosi e pagando di persona, come Di Nunno, han­no cercato di dar vita ad un con­fronto politico autentico.

L’IRPINIA

 

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